Alcuni brani dall’introduzione di Luciana Castellina a “Famiglia e società capitalistica” (il manifesto, quaderno n.1, Alfani Editore, 1974)

Alla battaglia per il referendum arriviamo stretti da tempi ridottissimi e in una situazione politica che tende a tal punto a precipitare in degenerazione istituzionale da sommergere il problema specifico – quello dell’abrogazione del divorzio – entro una problematica enormemente più vasta, quella che risulta da una crisi economica profonda e da una acutizzazione dello scontro sociale in assenza di uno schieramento di opposizione già in grado di offrire un’alternativa compiuta. Ma sarebbe un errore ritenere che di fronte a questa situazione sia necessario eludere la battaglia sul problema che il divorzio propone, quasi essa rappresentasse una dannosa distrazione rispetto alle urgenze della lotta di classe. Proprio la diserzione della sinistra da questo terreno di confronto, oltre a farla oggi trovare «scoperta» rispetto all’attacco reazionario, ha contribuito a mantenere praticamente intatto un sistema di valori, di consuetudini, di strutture sociali, che costituiscono una radicata remota conservatrice, che pesa inevitabilmente sulla dinamica del processo rivoluzionario. E’ un dato, questo, che se la pigrizia non prevalesse nell’analisi di come in concreto si sviluppa lo scontro di classe, fino a farci semplificare i protagonisti del conflitto entro lo schema di un proletario e di un capitale assolutamente astratti, sarebbe naturale riconoscere. E che invece tendiamo a non riconoscere, con la conseguenza di un pericoloso restringimento della nostra azione d’intervento.

Proprio l’ampiezza della crisi, di sistema e non congiunturale, in cui ci troviamo ad operare, dovrebbe farci rendere conto – se siamo convinti che dalla degenerazione del capitalismo non nasce automaticamente il comunismo, ma può derivarne anche caos e regresso per un lungo periodo storico – di quanto vitale sia per la sinistra rivoluzionaria incidere sull’insieme dei rapporti sociali di produzione per avviare, nel corso stesso della crisi, la costruzione di un movimento di lotta capace di affrontare in positivo lo scontro che una drammatica frase di transizione ci prepara. E quando si dice insieme dei rapporti sociali di produzione non si può non intendere che quello specifico rapporto sociale che si esprime nella famiglia ne è parte certamente non secondaria.

Del resto, come non vedere quale riflesso moderato e conservatore hanno le paure prodotte dagli sconvolgimenti sociali che incidono anche sull’assetto familiare, sui modi in cui si organizzano i rapporti umani, ove la sinistra non sia in grado, come non è stata finora, di proporre anche su questo terreno un’alternativa rivoluzionaria? Impedire il 1984, per usare la metafora di Gunder Frank e Samir Amin, vuol dire, anche, combattere sul fronte, certo più difficilmente definibile, della ristrutturazione che il capitalismo tenta al più generale livello dell’organizzazione sociale dell’ideologia; e sarebbe puerile pensare di preparare la rivoluzione lasciando intatta una crosta ideologica che non è stata praticamente scalfita.

Se è vero, come ha detto Marx, che dal rapporto uomo-donna si misura il livello raggiunto da una civiltà, vuol dire che attorno a tale rapporto si annodano tutti gli altri e che è impossibile pensare di estromettere proprio questo epicentro dalla lotta rivoluzionaria, non vedere come esso di connette e interseca con gli altri, non misurarvisi. Giudicare questa tematica di per sé interclassista, vuol dire negare in radice la capacità della classe operaia di affermarsi come classe egemone, cioè portatrice di una superiore e universale concezione del mondo. Qualcosa di simile, ma ancora più grave, di quel marxismo volgare e impoverito che alcuni decenni fa negava rilevanza di classe alle lotte di liberazione nazionale.

Né vale a dire, che una battaglia specifica su questo terreno non ha senso, in quanto proprio perché l’assetto della famiglia dipende dal capitalismo, basta impegnarsi a scalzarne le fondamenta attraverso la lotta economica di classe. L’esperienza della mancata rivoluzione in occidente e quella delle rivoluzioni che si sono fatte, dimostra quanto sia difficile, anzi impossibile, superare i rapporti capitalistici di produzione solo movendo da una modifica della forma della proprietà o utilizzando la pianificazione dell’economia; come cioè sia parte integrante del superamento dei rapporti di produzione capitalisti la critica globale e positiva di tutte le dimensioni e gli aspetti dell’organizzazione della vita sociale.

Se è vero che non si può cambiare la famiglia senza cambiare la società è altrettanto illusorio pensare di potere cambiare la società senza aggredire alla loro radice tutti i nodi che si intrecciano nell’istituto familiare.

Alla lunga, lo sappiamo, è la trasformazione sociale quella che conta, e non uno spostamento di equilibri puramente politici, sempre precario dove non affondi una reale modificazione dei rapporti di forza. Per questo non condivido prudenze e tatticismi, ma ritengo che alla battaglia del referendum dobbiamo andare a viso aperto, portandovi tutta la ricchezza della proposta comunista, consapevoli che in questi mesi non potremo fare molto, ma se non altro gettare dei semi, aprire interrogativi, far maturare contraddizioni, imporre una riflessione collettiva su una tematica su cui è il nostro avversario a volere mantenere il silenzio (…)

La concorrenza a chi meglio difende le meschine virtù della famiglia-tana

Ma c’è anche un altro ordine di rischi in cui affrontando la battaglia del divorzio in modo riduttivo e minimizzante si incorre, col pericolo di una sconfitta nel referendum. Il divorzio, è vero, di per sé non incrina la saldezza della famiglia, si limita a ratificare le separazioni di fatto che già esistono a migliaia, casomai a tutelare giuridicamente chi è rimasto colpito dalle loro conseguenze. Ma per quanto il fronte divorzista ripeterà questa verità – lo vediamo già ora nella diffidenza diffusa che troviamo fra gli stessi elettori di sinistra – non sarà facile imporla contro le mistificatorie denunce dell’avversario(…).

Da cosa nasce, infatti, questa diffidenza? Dal fatto che la famiglia viene oggi avvertita, paradossalmente assai più che in passato, come una zattera assolutamente necessaria alla sopravvivenza e a mitigare il terrore di una accentuata solitudine. Il capitalismo nel suo procedere, proprio mentre tende a socializzare la produzione, tende nel contempo disgregare ogni comunità sociale e a creare una società atomizzata dove l’individuo si sente sempre più isolato rispetto ai suoi simili (…)

Proprio per impedire che questa atomizzazione proceda fino alle sue estreme conseguenze, per impedire che si giunga alla disgregazione sociale e dunque a una sorta di anarchia che minerebbe il sistema stesso che l’ha generata, lo stato borghese ha bisogno, ai fini della sua stessa conservazione, di ricostituire un minimo di valori comunitari che forniscono isole di aggregazione e con ciò un terreno per perpetuare l’ordine stesso. E’ per questo che il capitalismo, mentre per effetto delle sue stesse leggi di sviluppo disgrega l’antica compagine familiare svuotandola di gran parte di quelle funzioni produttive che ne costituivano la ragion d’essere, e immettendo le donne nella produzione, sente nel contempo il bisogno di ricostituirla, esaltandone un ruolo mistificato. Di fronte alla giungla della società, essa si presenta come il solo possibile rifugio contro la società nemica, la sola zona franca per la legge dell’uomo contro quella della merce, fino a divenire grumo struggente di nostalgia, spezzone di memoria di un mondo in cui le cose avevano ancora un valore d’uso, affondato nell’oceano della competizione e del profitto. La sola isola, in definitiva, di solidarietà.

Ma – e qui sta la contraddizione insuperabile entro cui il sistema si dibatte – questo tentativo di recupero rimane totalmente astratto e riesce in qualche modo a compiersi solo su basi negative, grazie alla esasperata contrapposizione fra collettività e famiglia, intesa questa come tana, come rifugio, un sistema di fortezze chiuse dove la solidarietà dei consanguinei è l’altra faccia dell’egoismo brutale verso l’esterno, del ripiegamento sul proprio angusto particolare. L’educazione dei figli diventa in questo quadro l’allevamento dei cuccioli di belva da addestrare alla sfida della giungla (vera radice, questa sì, della corruzione) e il risarcimento delle frustrazioni degli adulti che su di loro scaricano, distorcendo le potenzialità umane dei bambini, i rancori accumulati.

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Il tessuto morale della convivenza diventa solo quello gretto dell’egoismo di gruppo, la donna viene indotta ad una castrazione sociale, ad una regressione verso l’animalità che le consenta di rappresentare nella commedia il ruolo di mediatrice fra progresso e natura, la compensazione dalle tensioni indotte dal mondo industrializzato. Tanto più è estranea alla vita sociale tanto più può sembrare che essa conservi un rapporto con la natura che i cittadini del capitalismo hanno perduto (tutta l’erotologia, peraltro, collabora validamente a questo fine). In lei si fa rivivere il mito del «buon selvaggio felice» che, improponibile al maschio addetto ai moderni mezzi di produzione si affida alla donna, nel tentavo di fare ritrovare all’uomo una innaturale naturalità fuori dalla storia. Stuoli di pediatri, psicologi, psicanalisti sono ingaggiati a questo fine, col risultato non solo di perpetuare la subordinazione della donna, ma di distorcere il significato umano dei rapporti, di impoverirne la ricchezza.(…)