Sceglie i prati di asfodelo dell’oltretomba, Margaret Atwood, come fondale del suo Il canto di Penelope (Ponte alle Grazie, pp. 153, euro 13,50) per dare (e sottrarre) corpo alle parole della scaltra (più che bella) moglie di Odisseo, consegnata alla storia per la granitica fedeltà al marito, sbattuto per mari e condannato ad assaporare i piaceri di altri letti prima di poter riposare in quello legittimo, in patria. Il suolo patrio, appunto: quella madreterra ora declinata al maschile che fagocita il preellenico mondo matriarcale a cui Atwood dà voce, attingendone la differente versione dai Miti greci di Robert Graves, nel solco Bachofen-Frazer.
Ripesca dunque il poco noto episodio contenuto nel canto XXII dell’Odissea che narra l’impiccagione delle dodici ancelle a cui Odisseo, dopo la strage dei Proci, impone la morte. Un coro di donne (dodici: com’erano, prima di Sofocle, i coreuti della tragedia greca) incolpevoli, secondo la proposta di Atwood (non quella omerica). Incolpevoli perché devote a Penelope, che le usa come orecchie sulla casa e sugli intrighi che vi si ordiscono; incolpevoli perché, non per lascivia, ma per obbedienza a lei e al suo piano, si concedono agli usurpatori. Un coro ancillare che infine si trasforma in coro di Erinni assetato di giustizia.
Questa Penelope, che non manca di suscitare simpatia ed empatia, e nei cui panni si è calata come attrice protagonista anche Atwood (nel reading/musical del 2005 di Phyllida Lloyd, al St James di Piccadilly), esprime però anche il lato più torbido dell’invidia (verso Elena e la sua bellezza: causa di quella guerra che le ha sottratto il marito) e dell’ingratitudine verso chi, in nome suo, si consegna all’estremo sacrificio; ultima forma di riscatto delle ancelle, confinate e destinate da sempre a un ruolo subalterno, quello di femmine sporche: «La sporcizia era la nostra preoccupazione, era il nostro mestiere, era la nostra specialità, la sporcizia era la nostra colpa. Eravamo le ragazze sporche».
Dall’Oltretomba Penelope può raccontare la verità o una versione personale e in parte depurata – non quella dirompente della Medea di Christa Wolf né quella dell’amorosa Timandra di Kallifatidis e neanche quella dell’accorata ma ormai sciupata Penelope delle Eroidi ovidiane. La versione di Atwood è ambigua, velata, come velata è sempre la Penelope omerica quando entra in scena, ma con l’ulteriore riscatto della risata beffarda che si concede dietro la protezione del velo. E colpisce per la sua ormai salda capacità di padroneggiare astuzia e menzogna in una specularità con Odisseo che li vede entrambi abili a cucire un racconto alternativo.
Anche Penelope è stata infedele? Secondo Atwood, o meglio secondo la versione che ne dà Apollodoro e che la scrittrice sembra scegliere, sì. Non è mai lei ad affermarlo – è il coro semmai che lo rivela – eppure ne suscita il più che fondato sospetto: «Eravamo – lo ammettevamo noi stessi – due esperti e spudorati bugiardi ormai da molto tempo. Ed è strano che ciascuno abbia creduto ciecamente alle parole dell’altro. Eppure è così. O così ci siamo detti».
Qual è dunque la verità, qual è la verità nel matrimonio? Javier Marìas, nel magistrale Un cuore così bianco, elegge il matrimonio a «istituzione narrativa» per antonomasia. Il racconto, ciò che si dice, e il silenzio, il segreto, fanno sempre la differenza. E qui ci sono donne che parlano e altre che tacciono. Così come Atwood aveva già evidenziato, vent’anni prima, ne Il racconto dell’ancella (di cui si aspetta il seguito per settembre 2019): lì Difred e le compagne usavano la parola, e i loro corpi, come denuncia, mentre le mogli acconsentivano allo stupro standosene zitte.
È vero che qui il racconto è prerogativa di Penelope, che è donna che parla, ma quella parola più spesso usa come il dito puntato dell’accusatore che si discolpa. La stessa tattica usata da un’altra eroina (euripidea, prima di tutto): Fedra, che così facendo condanna l’innocente Ippolito, lei donna schermata da veli pesanti come gravami, lei paradosso vivente, strangolata dalla doppia origine tellurica e solare condensata in quella felice espressione della flamme si noire di Racine.
Solo una suggestione, un gioco da galleria di specchi deformanti, perché quello del giansenista Racine non è il mondo della Atwood dove gli dèi, se esistono, sono più spesso utilizzati come scudi per giustificare comportamenti fin troppo umani, per disinnescare la carica esplosiva della rivelazione. Rivelazione che è qui invece affidata al coro delle ancelle, le fanciulle, le innominate che hanno in sé l’innocenza e la malizia dei bambini, e tutta la potenza sovversiva (e satiresca) del mito: «Considerateci un puro simbolo», dicono. «Noi siamo vere quanto il denaro».
Atwood, come sempre, non proclama una verità univoca, non sentenzia su punti di vista e vissuti, li racconta, tesse e disfa la sua tela perché un occhio esterno possa scorgerne il disegno e, se non giudicare, comprendere l’aspetto multiforme della natura umana, come multiforme è l’ingegno di Odisseo.