Una commedia «leggera» divertente ma che fa anche molto pensare, e nel crescendo finale fa perfino sgorgare qualche lacrima, di riso o di commozione poco importa. È un genere difficile, non molto praticato (a livello professionale serio) qui da noi, mentre invece ha solide radici anglosassoni, di qua e di là dell’Atlantico. Ora Calendar girls arriva a Roma (dal 12 al 15 aprile al Brancaccio) dopo le recenti repliche trionfali al Massimo di Cagliari, al termine di una tournée durata quasi tre anni. Un grande successo di pubblico, eppure passato quasi sotto silenzio.

La storia narrata è molto nota: per esser davvero accaduta negli anni novanta in Inghilterra, e perché Tim Firth ne ha tratto il testo teatrale, ma ne ha anche sceneggiato la trasposizione cinematografica per Nigel Cole, protagonista Helen Mirren. L’iniziativa di quel gruppo di donne è così tracimata anche in America, dove il successo (della storia e della raccolta fondi che promuoveva) ha assunto dimensioni davvero impressionanti.

Lo spettacolo racconta dell’iniziativa di quelle tranquille signore della provincia inglese, ferventi parrocchiane che si dedicano con molta compunzione ad attività benefiche o di pura «crescita» psicofisica, come il tai-chin (e magari qualche torneo di carte). Sono donne diverse tra loro, una compagine interclassista, ma che per motivi generazionali ha udito i rumori del ’68, se non le scosse del femminismo. Gìà, perché quell’universo femminile ha di certo passato i 50, e in qualche caso anche da parecchio. E quando il marito di una di loro muore per una leucemia incurabile, tutte si mobilitano per impegnarsi su quel fronte. E una di loro, la più spregiudicata, destinata a diventare la leader così come guidava le sedute di esercizi psicofisici, propone di fare, con le migliori e più nobili intenzioni, un calendario, come ne girano ormai di ogni gruppo sociale, dai militari ai preti.

Era la Mirren nel film , qui è una fantastica e misuratissima Angela Finocchiaro, di sicuro una delle nostre migliori attrici, destinata non si sa perché a rimanere in ruoli di eterna «medietà» (benché abbia dimostrato in pubblicità di saper tenere testa anche a Banderas). Attorno a lei, con tutte le esitazioni e i dubbi del caso sullo scoprire la propria matura nudità, prendono letteralmente corpo le buone intenzioni di tutte, rovesciando le impressioni iniziali sui singoli personaggi. E ognuna delle attrici sfodera tutti i mezzi e le furbizie del mestiere. A cominciare da Laura Curino, resa vedova ma non indomita dalla morte del marito, e da Ariella Reggio (grande signora del teatro brillante), che era stata l’insegnante di tutte, e dopo qualche dubbio lo sarà anche in questa nuova avventura.

Tutte le tipologie sociofemminili compaiono in maniera leggera: l’artista scapestrata (Matilde Facheris) e la ricca elegantona (Corinna Lo Castro), Carlina Torta (la tradita depressa), Elsa Bossi (la bacchettona che si convertirà), e ancora Noemi Parroni (disinvolta come conferenziera e come estetista), e le uniche presenze maschili in scena: Titino Carrara, il marito che progressivamente muore, e Stefano Annoni fotografo assatanato del gruppo di signore/mese. Si spogliano davvero, ma con grazia e pudore, quasi proteggendosi l’un l’altra. E questa delicatezza ricca di toni va ascritta al merito principale di chi tutto questo rende possibile e plausibile: la regista Cristina Pezzoli, una delle pochissime che abbiamo di valore sulle nostre scene. Che ha fatto sì che uno spettacolo che ci si aspetterebbe solo «brillante», sviluppi oltre al buonumore una così ampia dose di umanità.