Nel “vecchio reparto” del Cimitero del Verano, c’è la tomba di una ragazza scomparsa nel gennaio del 1951. Una foto la ritrae in abiti austeri, capelli ondulati, viso sorridente.

Anna Maria Baraldi è il suo nome. Aveva 26 anni. Suo padre Giovanni era un autista del Quirinale. Anna Maria morì al Policlinico Umberto I intorno alle 22 di lunedì 15 gennaio.

Aveva riportato gravi ferite in Via Savoia, nel crollo delle scale di un villino che oggi non c’è più, sostituito da un palazzo in cortina.

Anna Maria aveva trovato la morte mentre cercava un posto di lavoro. La domenica aveva letto un annuncio su Il Messaggero. «Signorina giovane intelligente, volenterosissima, attiva conoscenza dattilografia, miti pretese, per primo impiego cercasi. Presentarsi in via Savoia, 31 interno 2, lunedì ore 10-11 e 16-17».

Un fotogramma dal cinegiornale dell’epoca

LA MATTINA DEL 15 SI RECÒ al colloquio, accompagnata da sua madre Amelia. Come lei, centinaia di ragazze della Roma di allora avevano raggiunto quella signorile dimora. Via Savoia era ed è una strada che si snoda con eleganza da viale Regina Margherita per immettersi, salendo, in via Salaria, poco prima che l’arteria consolare confluisca in Piazza Fiume. In molte vi arrivarono in anticipo, sistemandosi in fila, come nei giorni di guerra per comprare il pane.

Passate le ore 10 – pochi minuti dopo l’arrivo dell’inserzionista – le rampe di scale che ospitavano le donne cedettero. Urla. Polvere. Sangue. Macerie. Terrore. Una ottantina di loro rimase ferita. Arrivarono i soccorsi, le ambulanze, i vigili del fuoco e le persone di buona volontà. Iniziò una corsa verso gli ospedali cittadini. Il Policlinico era il più vicino.

Giunsero giornalisti, fotografi e gli operatori della settimana Incom, il cinegiornale filogovernativo.

IL 17 GENNAIO NEI CINEMA di tutta Italia il pubblico guardò «Cento ragazze travolte da un crollo a Roma». Il servizio – commentato da Guido Notari, già voce della propaganda fascista – esclamava: «Forse ciascuna pensava al paio di calze e alla borsetta che si sarebbe comprata con il primo stipendio. E invece hanno lasciato qui la loro vecchia borsetta. Erano uscite di casa dando l’ultimo tocco di rossetto, elettrizzate dalla speranza».

Il 18 gennaio pomeriggio, una quarantina di ragazze rimaste incolumi dalla tragedia accompagnarono il feretro di Anna Maria al Verano. La signora Ida Einaudi, moglie del presidente della Repubblica Luigi, portò una corona di fiori. Una ghirlanda funebre era giunta anche dall’Unione donne italiane. I funerali si svolsero in un’Italia pronta ad accogliere – tra jeep della Celere nelle strade e drammatici scontri di piazza – la visita di Dwight Ike Eisenhower, il capo delle forze armate del Patto atlantico. Il quadro politico-sociale era “ostaggio” del centrismo democristiano e della “democrazia congelata” nelle trincee della Guerra Fredda.

GLI ULTIMI GIORNI di quel gennaio videro anche la prima edizione del Festival di Sanremo, presentato alla radio da Nunzio Filogamo. A trionfare, Nilla Pizzi con «Grazie dei fiori». Il tumultuoso processo del boom doveva realizzarsi, ma la società italiana era un vulcano dalla camera magmatica il cui tetto stava per fratturarsi.

Dopo due guerre mondiali e l’invio di milioni di soldati al fronte, le donne avevano messo un primo piede nel mondo del lavoro. Il primo censimento dell’Italia post-bellica, compiuto in quel 1951, fotografava un paese semianalfabeta (46,3% della popolazione) e ancora contadino.

Il maggior numero di donne occupate era proprio nel settore agricolo (2.033.447 su un totale di 4.913.553, oltre il 41%).

Ma i fatti di Via Savoia, dirà il regista Giuseppe De Santis, seppero «illuminare di colpo una data realtà sociale». A colpire l’opinione pubblica, fu «la sproporzione tra il numero delle ragazze e l’unico posto a disposizione».

QUATTRO MESI DOPO su intuizione di Cesare Zavattini, un giovane Elio Petri – con lo spirito del giornalista democratico e del pedinatore – iniziò un’inchiesta sulle ragazze che il 15 gennaio finirono su un letto d’ospedale, di cui poi ricevettero il conto da pagare. Si recò in via Savoia e al Policlinico, visitò i baraccati di Campo Parioli e il Flaminio, attraversò il Quadraro e Trastevere, il Prenestino e il Delle Vittorie, la nascente Centocelle e l’Aurelio.

Altro fotogramma dal cinegiornale

“Via Savoia” non fu altro che lo «spunto» per raccontare la città di Roma, le sue borgate e i quartieri piccolo-borghesi, i suoi tuguri e le zone residenziali. La sua gente. Le sue donne.
Sui suoi taccuini, Petri ne raccoglieva pensieri, sogni e paure, prima e dopo il tragico episodio. Prendeva nota di cosa leggessero, ascoltassero alla radio o guardassero al cinema. Le interrogava sui motivi che le avessero spinte a cercare quell’impiego da «miti pretese». Insieme a Maria che «voleva una bella casa e un buon marito laborioso», c’erano Marcella e le ragazze delle borgate animate dal desiderio di emancipazione e indipendenza economica e chi, come Eleonora, non aveva bisogno di lavorare perché di famiglia benestante.

Il frutto di quel peregrinare – racchiuso anche in un volume (Sellerio, 2004) – l’anno successivo darà vita a un film corale: «Roma ore 11», regia di De Santis, produzione di Paul Graetz per Transcontinental Film e Titanus. La sceneggiatura era firmata da Zavattini, Basilio Franchina, Rodolfo Sonego, Gianni Puccini e dallo stesso regista. La scenografia era di Léon Barsacq.

Le storie raccolte ebbero sullo schermo il volto di Lucia Bosè, Carla Del Poggio, Maria Grazia Francia, Lea Padovani, Delia Scala, Elena Varzi. Alcune sopravvissute di via Savoia parteciparono alle riprese. Spirito neorealista e cinema meló si fusero sul grande schermo. A completare il cast Raf Vallone, Massimo Girotti e Paolo Stoppa.

I PRIMI FOTOGRAMMI del film – immagini di Roma, ritagli di giornale di quel gennaio ’51, ringraziamenti a chi aveva permesso la «ricostruzione dei fatti e dello spirito della vicenda» – erano accompagnati da una colonna sonora di ticchettii, carrelli e campanelli. Era il Concerto per quattro macchine da scrivere e orchestra di Mario Nascimbene. Le macchine da scrivere, simbolo di libertà di stampa e di lavoro.