«Una legittimazione dell’odio e dei pregiudizi razziali come non si era più vista dai tempi di George Wallace». Secondo Mark Potok per cercare di inquadrare in qualche modo il “fenomeno Trump” nell’ambito della storia americana, il primo riferimento a cui guardare è rappresentato dal celebre governatore dell’Alabama che negli anni Sessanta incarnò la difesa a oltranza dello status quo razziale degli Stati uniti. Per il responsabile del Southern poverty law center, il più importante centro di studi sul razzismo dell’intero paese, il politico democratico che avrebbe legato la propria sinistra notorietà all’affermazione «segregazione oggi, segregazione domani, segregazione sempre!», rappresenterebbe perciò una sorta di antesignano diretto di The Donald. E questo anche perché Wallace, nel pieno della contestazione contro la guerra del Vietnam e delle rivolte che scoppiavano nei ghetti neri seppe intercettare non solo l’humus segregazionista del Sud ma anche la crescente insoddisfazione verso i liberal della working class bianca delle metropoli del Nord e del Midwest, pescando perciò «in una falda di insoddisfazione più profonda e indistinta». Alla luce di come è stata condotta la sua recente e vittoriosa campagna elettorale, c’è chi è arrivato ad affermare addirittura che «Trump è Wallace con Twitter».

GIA’ DA QUESTA PRIMA, parziale indicazione emerge come malgrado, quanto a programmi e parole d’ordine, sia facile paragonarne il profilo a ciò che in Europa va abitualmente sotto l’etichetta di “populismo di destra”, il percorso che ha condotto il miliardario newyorkese alla Casa Bianca, per quanto smaccatamente post-ideologico e caratterizzato da una dose non marginale di opportunismo politico, sembra iscriversi in una storia tutta americana. Quella che ha condotto perlomeno nell’ultimo mezzo secolo, ma con radici profonde che lambiscono l’intera storia nazionale, alla formazione di una nuova destra che ha abilmente giocato con il razzismo, le inquietudini identitarie, il risentimento nei confronti delle élite e il sospetto e i timori verso ogni sorta di trasformazione e di cambiamento.

UN VOCABOLARIO che nella stagione della più grave crisi economica e sociale conosciuta dagli americani dagli anni del crollo di Wall Street, Trump ha saputo declinare nei termini di una “profezia del declino” entro la quale ciascuno potesse ritagliarsi la sua fetta di risentimento, frustrazione, rabbia.
Perciò se i pregiudizi razziali sparati oggi via social media all’indirizzo di milioni di elettori rimandano per certi versi ad un aggiornamento della strategia di Wallace, nello stile di Trump sembra si possa cogliere anche l’eco di alcune caratteristiche di lungo corso della società americana che lo storico Richard Hofstadter aveva cominciato ad analizzare fin dagli anni Sessanta esaminando fenomeni come il maccartismo o la candidatura dell’ultraconservatore repubblicano Barry Goldwater nelle presidenziali del 1964 o il sorgere di formazioni a vocazione paramilitare e complottista come la John Birch Society; vale a dire l’“anti-intellettualismo”, che si esprime nel rifiuto e nel timore nei confronti del pensiero critico e della complessità, come lo “stile paranoico”, che rimanda all’idea che un nemico o una forza potente agiscano contro gli interessi del paese.

ALLO STESSO MODO la linea law and order inaugurata da Trump in occasione della convention repubblicana di Cleveland, l’altra faccia dell’evocazione del “declino” già proposta sui temi sociali e in quella circostanza utilizzata per descrire invece la minaccia rappresentata dal crimine, rappresenta una sorta di citazione diretta di quanto fatto nel 1968 da Richard Nixon che prometteva il pugno di ferro nelle città proprio mentre si accingeva a smontare i programmi sociali e le politiche di affirmative action varate solo pochi anni prima da Lyndon Johnson. Un’idea, quella di separare la repressione del crimine dal tentativo di indagarne anche le possibili cause sociali che sarebbe tornata in auge oltre un quarto di secolo più tardi nella New York del “sindaco-sceriffo” Rudy Giuliani, non a caso grande sostenitore di Trump.

MA ANCHE VICENDE meno note, come la grande rivolta delle campagne guidata dall’American agriculture movement, che nel 1977, durante la presidenza del democratico Jimmy Carter, invase Washington con migliaia di trattori per opporsi allo «strapotere delle banche e della finanza internazionale» sulla terra, o la denuncia del nuovo ordine mondiale e della globalizzazione come veri e propri «complotti contro l’America», ribadita a più riprese fin dagli anni Novanta da Patrick Buchanan, esponente di spicco dei cosiddetti paleoconservatori del Partito Repubblicano e più volte candidato alla nomination, sembrano aver preparato il terreno per quella sorta di “anti-globalismo di destra” annunciato oggi dal nuovo presidente degli Stati uniti.

E SE SI PENSA che uno dei politici più popolari dell’intera storia nazionale, cui hanno tributato omaggi sia Bill Clinton che lo stesso Obama, Ronald Reagan che inventò la storiella della “welfare queen”, una donna, chiaramente nera anche se lui non ebbe mai bisogno di dirlo in modo esplicito, che si era comprata una cadillac con i soldi del sussidio di disoccupazione, per far passare il messaggio che le spese sociali e la solidarietà erano poco più che un abuso o una truffa, si può ben comprendere quali illustri predecessori abbia avuto l’attuale denuncia da parte di Trump delle storture presenti nella macchina statale del paese. Alla celebre “bufala” di Reagan si è soliti far risalire il debutto della cosiddetta Rivoluzione conservatrice e della svolta del neoliberismo, con la sua promessa di un muro al confine con il Messico e grazie all’armamentario simbolico del «ritorno della grandezza americana», con un sottotesto di ritorno al “primato dei bianchi”, Donal Trump si accinge ora a scrivere una nuova pagina di storia americana. Se possibile ancor più inquietante.