Sono ormai celebri le parole con le quali Adorno affermava che anche «scrivere una poesia è un atto di barbarie dopo Auschwitz». Lo stesso filosofo avrebbe successivamente rivisto questa posizione, destinata comunque a rimanere nel tempio delle reazioni suscitate dallo spartiacque storico e teologico della Shoah; un evento, secondo Hans Jonas, da ascrivere alla storia sacra, al piano più profondo della comprensione di Dio. La scelta di papa Francesco di visitare in silenzio il campo di concentramento sembra iscriversi in questo campo di riflessione sull’«Evento» che chiama in causa Dio, la sua esistenza e comunicabilità.

Già nel maggio 2014 al Memoriale di Yad Vashem, in continuità simbolica con il gesto dei suoi predecessori, Bergoglio aveva utilizzato uno dei passi più dibattuti del libro della Genesi (3,9), quello in cui Dio cerca Adamo, lo interroga per provocarlo e chiamarlo a rendere conto delle sue responsabilità: «Quel grido: “Dove sei?”, qui, di fronte alla tragedia incommensurabile dell’Olocausto, risuona come una voce che si perde in un abisso senza fondo…». Un registro diverso era stato adottato nel 1979 da Giovanni Paolo II, il primo papa a visitare il campo.

Allora, avevano prevalso gli accenti di una speranza cristiana (1Gv 5,4) simboleggiata dal «martirio» del padre francescano Massimiliano Kolbe. Nel 2006 Benedetto XVI sceglieva di tornare a Auschwitz e Birkenau, lui papa tedesco che di fronte a quell’«accumulo di crimini contro Dio e contro l’uomo senza confronti nella storia» sentiva il peso delle responsabilità del suo popolo.

Nel suo lungo discorso, colto e sottile come nello stile del papa-teologo, Ratzinger poneva l’accento sul disegno nazista volto a «strappare anche la radice, su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo». Alle spalle di tale riflessione c’era la lezione del Concilio Vaticano II, che nella dichiarazione Nostra Aetate aveva messo da parte i motivi tradizionali di un antigiudaismo cristiano che, nella sua versione novecentesca, si era spesso confuso con l’antisemitismo politico.

Negli ultimi anni gli storici hanno messo in luce le difficoltà che la Chiesa cattolica incontra ancora oggi nel fare i conti con le sue responsabilità storiche nello sterminio degli ebrei. Da questo punto di vista è particolarmente interessante il documento Noi ricordiamo stilato nel 1998 dalla Commissione per i rapporti con l’ebraismo, in cui non si faceva cenno al problema dei silenzi di Pio XII e, soprattutto, veniva riproposta la tesi storica della totale estraneità del cristianesimo all’antisemitismo secolarizzato. Negli anni 2000 il percorso iniziato con il Concilio è proseguito in maniera fruttuosa sul piano del confronto teologico, ma senza discontinuità nella narrazione storica (si veda, per esempio, il cappello introduttivo al documento stilato dalla medesima commissione nel dicembre 2015).

Centrale è diventata invece la categorie dalle radici comuni (religiose e civili) unite dal dramma indicibile dell’Olocausto. Nel colloquio con i giornalisti durante il viaggio d’andata a Cracovia Bergoglio ha condannato la nuova guerra mondiale e ha esortato le religioni a stigmatizzare un utilizzo del sacro per scopi politico-economici.

Parlando con le autorità polacche ha menzionato il sogno di Wojtyla di «un nuovo umanesimo europeo che trova nel cristianesimo le sue radici più solide» e ha sollevato il tema della storia comune come richiamo (spinoso per il governo di Varsavia) «affinché i processi decisionali e operativi siano sempre rispettosi della dignità della persona. Ogni attività ne è coinvolta: anche il complesso fenomeno migratorio».

Nel complesso del viaggio apostolico di Francesco in Polonia il silenzio ad Auschwitz sembra inserirsi in un quadro coerente che, come scrive il sociologo Jeffrey Alexander, trova nella memoria della Shoah il fondamento morale dell’Occidente, il punto di riferimento per la difesa dei diritti umani e contro le nuove guerre. Dal punto di vista della Chiesa cattolica, Auschwitz può essere letto oggi come un paradigma, in parte funzionalmente destoricizzato e ormai teologicamente solido, esemplificativo del contributo che le religioni intendono dare alla civiltà europea.