L’uso di metafore sul cibo e sulla nutrizione rappresentano un esercizio stilistico che aiuta a comprendere meglio i tempi in cui viviamo. Tutto sembra ruotare intorno al mangiare: siamo letteralmente invasi non solo da programmi tv e via internet legati al cibo, ma da una retorica che trasforma un certo modo di mangiare in un certo modo di pensare e di vivere. Mangiare davanti la Tv, mentre assaporiamo reality sul cibo, sul trend cooking. Oggi come ieri ignoriamo che l’accesso al cibo e ad una alimentazione variegata sono la proiezione nella società del nostro status, attraverso cui leggere e collocare socialmente ed economicamente le nostre abitudini alimentari. Mangio tanto e di più, perché posso. Perché non mangiare anche meglio, allora?

Dietro questa confusa convinzione si sviluppa da un paio di decenni il terreno su cui, a partire dalla metà degli anni Ottanta, le tesi di Slow Food e di Eataly ha trovato consensi. Una costruzione che ha lavorato sull’immaginario prima ancora che sulle abitudini alimentari della gente, e che Wolf Bukowski, bolognese e guest blogger di Giap (sito dei Wu Ming), ha preso di petto nella suo libro La danza delle mozzarelle (Alegre, euro 14).

Nella ricostruzione che Bukowski mette a punto viene chiamata sul banco degli imputati la narrazione di un modello scientemente viziato dall’assunto che oggi, in Italia, la spesa per l’alimentazione è in forte calo, segnando una forte controtendenza con quanto ad esempio avveniva nel decennio degli anni Settanta. L’autore, e qui risiede uno dei maggiori pregi della sua documentata arringa, sgonfia la portata di questa vulgata puntando fin dalle prime pagine non solo a smentirla con numeri e fonti, ma anche smascherando l’idea di fondo di questo nuovo produttivismo benevolo: non si mira tanto ad una cambio radicale dei modi di consumo, quanto ad un incremento del consumo stesso. In altre parole, non c’è nessuna «etica rivoluzionaria» dietro le strategie di marketing improntante sulla logica «seminare, distribuire e consumare in maniera buona, pulita e giusta», a maggior ragione se non avviene nessun meccanismo di rottura con le pratiche di sfruttamento e precarizzazione che si articolano nella filiera produttiva. Ed è proprio nella parte introduttiva del testo che Bukowski centra il punto, richiamando la critica mossa da Gramsci all’affermazione di Feuerbach «l’uomo è ciò che mangia».
D’altronde, proprio al modello produttivo inerente il brand Eataly afferisce la contraddizione principale tra una narrazione apparentemente progressista e una sostanza concretamente simile al resto della produzione demodé. Dietro la patina nuovista, farinettiana, si celano i soliti rapporti di lavoro precario, sfruttato, mai indeterminato e mai garantito, ma sempre just in time. Il tutto al fine di una produzione d’elite, circoscritta a quel pezzo di società che può permettersi di entrare e acquistare prodotti economicamente alla portata di pochi. Un modello che si è puntualmente trasposto nella costruzione fisica e immaginaria dell’Expo, su cui oggi si sta interrogando il variegato mondo della sinistra: non a caso il Jobs Act renziano non fa altro che recepire quelle sperimentazioni contrattuali attuate nel «laboratorio Expo».

Quella galassia che Wolf Bukowski, all’inizio del libro, ha citato in giudizio perché complice di aver sdoganato le retoriche su cui poi il modello i Farinetti ha proliferato. In questo testo c’è dunque un’analisi che punta a svelare il fatto che la retorica dietro il modello di Eataly è un vero e propri inno al consumismo. Di come la sinistra, intesa come patrimonio comune, possa oggi fare opera di demistificazione ai tempi del turbocapitalismo. Una sinistra che dovrà fare tesoro di riflessioni come quelle che Bukowski ha avuto il coraggio di condividere con lei, andando oltre la patina del politicamente corretto, anche quando riguarda un tema apparentemente secondario come il cibo.