Anche se è una figura abbastanza conosciuta fra gli amanti della settima arte, Masumura Yasuzo (1924-1986) è stato un regista che forse oggi, visto l’arco della sua carriera, meriterebbe di stare a fianco dei vari cineasti che rivitalizzarono il cinema giapponese dagli anni sessanta in poi. Studente nei primi anni cinquanta di Fellini, Visconti e Antonioni presso il Centro sperimentale di filmografia di Roma, una volta rientrato in patria Masumura ha prima lavorato come assistente per Kon Ichikawa e Kenji Mizoguchi e poi diretto, dal 1957 al 1982, circa una sessantina di film. Spesso attraversando il cinema di genere, erotico, horror, commedie o in costume, il suo tocco autoriale sarebbe sempre stato molto evidente ed inconfondibile, pur lavorando sempre per grandi case di produzione, la Daiei su tutte.

FRA I VARI GIOIELLI che compongono la sua lunga filmografia, oggi ci soffermiamo su Moju, conosciuto in Occidente come Blind Beast, film che usciva nelle sale del Sol Levante proprio in questo periodo cinquant’anni fa. Tratto da un racconto del giapponese Edogawa Rampo, l’influenza dello scrittore sul cinema nipponico sarebbe un’interessante tema da approfondire, il film narra della vita da recluso di uno scultore cieco e di sua madre, che un giorno rapiscono una giovane ragazza per usarla come modella per la delirante arte dell’uomo. In un capannone adiacente la loro abitazione infatti l’artista crea delle gigantesche sculture tattili che riproducono il corpo della ragazza, o meglio le varie parti del suo corpo. Per lo spettatore che può vederle, queste sono un trionfo del bizzarro e del grottesco, quasi un Francis Bacon in tre dimensioni, orecchie giganti che decorano una parete, il seno come una catena montuosa dove distendersi e ancora una moltitudine di occhi e nasi che «adornano» questa camera folle.

CON IL PASSARE degli anni il lungometraggio è diventato un vero e proprio film di culto, come del resto molti altri film tratti da racconti o romanzi di Edogawa Rampo. Blind Beast attraversa una manciata di generi, parte come un thriller per poi sfociare nel film erotico con venature horror, un po’ ricalcando la carriera dello stesso Masumura. Non si tratta di un vero e proprio film dell’orrore, ma piuttosto di un sogno acido ad occhi aperti, come se le famose scene create da Salvador Dalì per il sogno di Gregory Peck in Io ti salverò del 1954 si allargassero per comporre un intero film. Gran merito va di certo all’enorme set realizzato come una sorta di mostra degli orrori in versione arte pop contemporanea dallo scenografo Shigeo Mano, ma anche alle musiche e dallo stile visivo che Masumura infonde in tutto il lungometraggio. Il capannone oscuro dove lo scultore lavora alle sue opere è una sorta di caverna magica quasi di stampo edipico dove tutto è permesso ed il desiderio viene lasciato correre libero senza tabù o restrizioni di nessun genere. Rimane certo un film di genere fatto per intrattenere, come tutti i film diretti da Masumura del resto, ma è indubbio come Blind Beast riesca a catturare in maniera indiretta le fortissime pulsioni derivate della liberazione sessuale e dal senso di rivolta che animavano la fine degli anni sessanta. Ma allo stesso tempo il film è un ritratto ben poco edificante della figura dell’uomo e dell’artista, con i suoi lati oscuri e distruttivi. Per di più, visto a distanza di cinquantanni nel momento storico che stiamo vivendo, non si può non notare come l’arco del protagonista sia un forte simbolo di come l’artista spesso usi il soggetto umano che ritrae o che usa come ispirazione, in questo caso la giovane modella, come un oggetto da usare solo per i propri fini, apparentemente «alti» del processo artistico.

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