«Per restare insieme bisogna parlarsi poco, l’indispensabile, tacere sì tanto» è la «filosofia» di Aldo, eppure un giorno come tanti, recita a scuola, panino davanti alla tv col programma sulle «famiglie» degli animali visto insieme ai bambini, una ragazzina più grande e il fratellino, il bagno e le chiacchiere con la figlia che deve farsi la coda di cavallo che a lui piace tanto, le storie lette prima di dormire, di botto alla moglie Vanda getta addosso la frase che gela. Quella di un tradimento, di una bugia ripetuta, di una dichiarazione che porta in sé conseguenze: se fosse un nulla non lo avrebbe detto, dunque è un innamoramento, qualcosa di grande contro il loro rapporto che non esiste più.

EPPURE a cercarli c’erano dei segnali, un nervosismo, silenzi, la voce dell’umo diversa – lo nota la piccola: magari già quella dell’altra, di cui ha preso influenze, vezzi, pause, ritmi, ciò che per loro è un’estraneità ? Lacci  (nelle sale dal 1 ottobre) però non è la «scena» di un matrimonio, non come la pensava Bergman almeno e neppure la cronaca di un amore, piuttosto sembra l’ennesima dissertazione sul maschio fragile, discretamente egotico nella sua piattezza che però poveretto finisce per sacrificarsi suo malgrado in mezzo a donne che esigono una risposta, pazze, questuanti, ricattatorie, pupare di quei lacci ai quali nessuno riesce a sottrarsi, meno che mai lui perché farsi portare dalle cose è più facile, in fondo, o almeno più lieve. E tra danze, andirivieni nel tempo, psicosi collettive, figli usati orrendamente in questa «guerra» e cresciuti perciò pieni di ferite il film di Daniele Luchetti – che ha aperto ieri la Mostra – procede inanellando tutto ciò che del cinema italiano pensavamo fosse passato, quasi a sbalzarci pure noi se non agli anni della storia, che sono gli Ottanta, a quei Novanta di sceneggiatura- firmata qui dallo stesso regista insieme a Domenico Starnone, autore del romanzo omonimo a cui è ispirato e a Francesco Piccolo – e narrazioni mai complesse, nonostante i «pedinamenti» in primo piano sugli attori che invece di liberare i loro personaggi li inchiodano alla ripetizione di sé. Ed è un peccato perché proprio gli interpreti – da Alba Rohrwacher a Luigi Lo Cascio a Linda Caridi, lanciata da Ferdinando Cito Filo Marino nei panni della poetessa Antonia, poi nel bellissimo Ricordi? di Valerio Mieli sono un bel potenziale.

NELLA MOSTRA 77 della «ripartenza» cominciare con un film italiano può essere giusto ma perché questo tanto distante da quel nostro cinema che negli anni ha saputo ritrovare una dimensione internazionale, una forma contemporanea, una sorpresa, un piacere?
Non che nelle due camere e cucine di quella Napoli anni Ottanta dove Aldo (Lo Cascio) e Vanda (Rohrwacher) vanno avanti probabilmente come tante famiglie non si possa trovare qualcosa, basterebbe cercarlo. E invece.

LUI SCRIVE, si occupa di libri, è un autore radiofonico con l’ambizione di conferme, lei lo ha seguito, sta coi figli, li bada, si è presa il peso dell’andamento domestico sempre lì mentre lui va a Roma regolarmente per lavoro. Poi c’è Lidia, la ragazza più giovane (Caridi) di cui Aldo si innamora. Si innamora? Chissà, pure se va via di casa nell’eccitazione di un nuovo inizio, che non lo vede padre, che lo solleva dai ruoli, dai «lacci». Vanda impazzisce – per amore? Per ripicca? Per ostinazione o perché vorrebbe lasciarlo lei? Gli anni passano, si fanno decenni, li ritroviamo col rancore che cova e si intreccia al rimpianto.
Sì, poteva essere una bella storia ma dipende sempre dal punto di vista. Che qui, nonostante vengano esibiti un po’ quelli di tutti, delle due donne, e persino dei figli adulti che all’età dei genitori quando tutto comincia sembrano più vecchi di loro, disfatti dai massacri subiti, rimane sempre (Piccolo touch) nella testolina di Aldo da giovane e da vecchio – Silvio Orlando mentre Vanda matura è Laura Morante.

PENSO a Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, proprio qui l’anno scorso, anche quella una lotta, quando finisce l’amore, i figli che stanno in mezzo, scoprirsi all’improvviso estranei fino a detestarsi. E senza furbizie, pure con simpatie esibite, ma con scrittura raffinata in equilibrio fragile e d’emozione. Luchetti – e insieme a lui gli altri autori – non sembrano invece interrogarsi su questo, perché si accontentano appunto del monosguardo del loro personaggio maschile. Siamo nella sua testa e gli altri, cioè le donne della sua vita, diventano le sue proiezioni, perciò moglie psicopatica e amante noiosa appena lo pone di fronte a una scelta, appena problematizzata. Forse è questa la presa la presa di distanza, il tentativo di capovolgere il suo mondo? Forse.
Ma discernere da un certo compiacimento è difficile. Soprattutto poi è questione di cinema, che qui sembra mancare. O almeno finire inghiottito tra troppi esibiti salti nel vuoto.