Alla scorsa Mostra del cinema di Venezia era la presidente della giuria del concorso internazionale, al di là delle discussioni – che hanno caratterizzato anche l’anno che si chiude oggi – sul ruolo delle donne nell’industria dello spettacolo, la scelta di Lucrecia Martel rimandava anche al lavoro di una regista che nel tempo ha conquistato uno spazio importante sulla scena del cinema mondiale, dagli esordi con La Ciénaga (2001) fino all’ultimo film, Zama (2017) – che proprio a Venezia ha visto la sua anteprima italiana – mai uscito nelle nostre sale.

Lucrecia Martel è anche un’attivista, in prima linea in Argentina nel movimento contro la violenza di genere e per il diritto all’aborto in Argentina, #NiUnaMenos, dichiarava alla vigilia del Festival: «Il male del cinema è di essere ovunque in mano a una sola classe sociale. Un’omogeneità abbastanza evidente. Quando ero adolescente in Argentina uscì un film, Camila, diretto e prodotto da donne. Pensai che fosse la norma. Mi resi conto dell’errore solo quando iniziarono a domandarmi quanto fosse difficile fare questo mestiere per una regista». Le sue protagoniste sono quasi sempre femminili, si tratta di sguardo, di sensibilità, di un «filtro» che meglio restituisce conflitti, marginalità, esclusioni. Ma soprattutto è come se questi personaggi portassero in sé la realtà e il suo controcampo, mostrando come la questione di gender sia qualcosa di molto più ampio, e coinvolga l’intero sistema sociale, culturale, economico.

Martel – e meno male – non è l’unica regista che ha conquistato un ruolo nel cinema internazionale quest’anno, anzi ci sono state diverse autrici che hanno lasciato un bel segno, come Celine Sciamma con Ritratto di una giovane in fiamme – tra l’altro la protagonista, Adele Haenel denunciando per molestie un regista con cui aveva lavorato a quindici anni, ha acceso nuova discussione in Francia sui rapporti che si stabiliscono nei diversi set e nel sistema culturale in genere, non solo al cinema per le donne.

O Mati Diop che col suo Atlantique – in corsa per la cinquina dell’Oscar al migliore film internazionale – ha confermato un talento prezioso, già visibile nel film dedicato ai luoghi del cinema di suo zio, Djbril Diop Mambety, Mille soleils (2013), creando inoltre personaggi femminili che affermano con prepotenza la loro singolarità, il loro sentimento di rivolta rispetto ai codici delle rappresentazioni dominanti di un Paese, l’Africa, costretto all’immagine del «vittimismo».

Eccole invece queste ragazze ribelli, decise, combattenti che trovano il proprio spazio in un film di genere – che questo è Atlantique, un film di zombie che mescola senza pregiudizi leggende arcaiche e Tourneur – con la loro giusta rabbia contro chi per arricchirsi in Africa, complici le economie straniere gli ha portato via gli amanti, gli innamorati, risucchiati nella traversata sul fondo del mare.
Perché Lucrecia Martel allora? Per ciò che ha scatenato – e molto al di là di lei – la sua affermazione proprio alla Mostra di Venezia, quando in apertura di Festival ha confidato da donna, da militante, da femminista il suo disagio rispetto a Roman Polanski e al suo film, J’accuse, anche se lui è stato condannato e la sua vittima lo ha perdonato – «La cosa interessante di un’opera d’arte è proprio il fatto che vi traspare l’autore» ha detto tra l’altro Martel pur riconoscendo l’importanza di dare una chance al regista.

Questo punto è una chiave importante rispetto a molti accadimenti recenti: le dichiarazioni di Martel sono state male interpretate – anche utilizzate strumentalmente da una parte all’altra – ma la «confusione» tra un prodotto e le «colpe» vere o presunte dell’artista è divenuta un po’ un sistema – pensiamo al caso di Woody Allen con Un giorno di pioggia a New York, Amazon che lo ritira, lui messo all’indice per nulla visto che le accuse di molestie alla figlia Dylan non hanno mai avuto un seguito.

Non è questione di separare artista e criminale – ve ne sono nella storia dell’arte e sarebbe assurdo censurarne ora l’opera – ma di spostare su di essa un clamore che non sembra possibile altrove. Martel ha utilizzato quel palcoscenico anche per ribadire il 50/50 cioè la pari opportunità tra uomini e donne nelle selezioni dei festival (cosa molto diversa dalla parola orrenda «quote rosa») perché è un passo che apre all’industria, alla produzione ancora molto in salita nel cinema. Ci sono de rischi? Sì, la confusione: si fa a chi grida più forte, si invocano censure – e dress code creativi un po’ inquietanti, molto ipocriti. Riflettere – come suggeriva di fare Martel – è l’esatto contrario, un punto da cui ripartire.