Alle nove del mattino sulla piazza del Quirinale fanno la giostra i cavalli dei corazzieri, è già l’ora delle prove per la cerimonia del giuramento del nuovo presidente della Repubblica. Al piano nobile del palazzo che affaccia sulla stessa piazza, nell’aula delle udienze della Corte costituzionale, il vicepresidente della Consulta Giuliano Amato tiene la laudatio di saluto al presidente uscente Giancarlo Coraggio. Sabato prossimo sarà proprio Amato a essere eletto dagli altri giudici presidente della Corte, ammesso che intanto non venga chiamato all’altra presidenza, quella che aspettano i cavalli e i corazzieri. O magari subito dopo.

Alle otto di sera, Amato raccoglie appena due voti nel secondo scrutinio nell’aula di Montecitorio, ma anche questo è uno scrutinio che non conta nulla. Amato resta una delle due sole possibilità per risolvere lo scontro sotterrane tra Mario Draghi e una parte consistente della sua maggioranza senza che vinca nessuno. Senza cioè che al Quirinale ci vada Draghi, ma neanche qualcuno in grado di sbarrargli la strada per sempre. L’altro presidente che offrirebbe questa garanzia resta Sergio Mattarella, il sogno proibito di legioni di parlamentari che vorrebbero congelare per sempre l’attuale assetto istituzionale – nel quale per l’appunto loro sono in parlamento – ma che resta indisponibile al bis senza una richiesta forte e condivisa da tutte le forze politiche. Che non c’è. Intanto ieri sera di voti Mattarella ne ha raccolti 39, quanti l’ex giudice costituzionale Maddalena che è il candidato di bandiera di un gruppo di ex grillini riconoscibili ieri pomeriggio da uno striscione srotolato in piazza Montecitorio: «Draghi vuole scappare al Colle mentre chiude l’Italia con il Green Pass».

Ma Draghi non scappa da nessuna parte. La sua maggioranza composta da una coalizione e mezzo non è in grado di parlarsi, a dispetto di mille incontri. Le coalizioni invece fanno finta di marciare unite, ma i partiti alleati si smentiscono a vicenda, si muovono da soli e non si fidano più soprattutto dei loro vicini. Dopo il Quirinale comincia la campagna elettorale, ma è come se fosse già qui.

Alle quattro del pomeriggio Matteo Salvini entra nell’auletta dei gruppi parlamentari di Montecitorio dove il centrodestra ha convocato una conferenza stampa per presentare la sua “rosa” a quattro petali. Ma un petalo, Elisabetta Casellati, già offerta a Giuseppe Conte per tentarne il tradimento del Pd, si è perso per strada. I quattro nomi sono in realtà tre, quello della presidente del senato non c’è «per tutelarla», dicono. Salvini sale sul palco, mascherina tricolore, un braccio sul fianco a tirare via la giacca dalla pancia, il telefono all’orecchio. Va avanti per venti minuti, solcando lo spazio inquadrato dalle telecamere avanti e indietro, sempre parlando al telefono. Giorgia Meloni dietro la scrivania aspetta. Giovanni Toti davanti alla scrivania aspetta. Aspettano anche Maurizio Lupi, Luigi Brugnaro e Lorenzo Cesa, gioviali. Poi aspetta persino Salvini, perché la telefonata è finita ma manca ancora un offeso Antonio Tajani. Il coordinatore di Forza Italia sarebbe stato il quinto petalo della rosa, se Meloni e Salvini non lo avessero staccato subito. Però lo omaggiano in conferenza stampa, quando finalmente scuro in volto arriva, descrivendolo come uno statista che ha «i titoli e oltre», di «livello europeo», insomma un nuovo Adenauer persino troppo autorevole per il Quirinale. Poi non accettano domande dai giornalisti. I sette del centrodestra sono venuti qui per dire una cosa sola: «La nostra coalizione è compatta e si muove all’unisono». Che è vero più o meno quanto il fatto che puntano sulla rosa dei tre nomi superstiti: Letizia Moratti, Carlo Nordio e Marcello Pera. Nomi incredibili anche per loro. Salvini deve leggere dagli appunti per presentarli e quando arriva a Pera si stupisce in diretta: «Eh, non è mica da tutti aver scritto un libro con il santo padre». Poi riprende il telefono e riparte per le sue trattative, mentre Adenauer-Tajani sta già spiegando che «non ha una delega in bianco».

Alle cinque del pomeriggio, ascoltata la proposta del centrodestra, Enrico Letta riceve nella sale del gruppo Pd della camera i suoi probabilmente alleati, 5 Stelle e Leu. Alla sua sinistra, staccato di una sedia, siede Conte che lunedì ha provato a trattare con Salvini l’appoggio dei 5 Stelle a una candidatura del centrodestra, giungendo a parlare di «totale sintonia» con il capo leghista come nemmeno ai tempi dei decreti Salvini. I grandi elettori del Pd al mattino, letti i giornali, lo avrebbero volentieri inseguito con i forconi e anche un bel po’ di 5 Stelle. Persino Letta, che ancora lavora per portare Draghi al Quirinale, avrà perso la pazienza vedendo in tv Conte affacciarsi da un’uscita posteriore della camera e gridare alle telecamere: «Il timoniere deve restare al posto al quale lo abbiamo chiamato in emergenza». Il timoniere sarebbe Draghi e a chiamarlo sarebbe stato lui, Conte. Ma il segretario del Pd ha problemi persino più prossimi, con un bel pezzo del gruppo parlamentare del Pd sempre meno nascostamente schierato con Pierferdinando Casini. Altro che Draghi.

Senza accordi e senza il controllo delle truppe sulle quali gli eventuali accordi dovrebbero reggersi, i capi delle inesistenti coalizioni si rivedranno ancora oggi. Intanto i grandi elettori non li seguono neanche nell’indicazione semplice di votare scheda bianca, ieri i voti dispersi di fantasia sono persino cresciuti. Stamattina c’è l’ultimo scrutinio con il quorum alto. E i cavalli del Quirinale fanno ancora le prove.