La fantascienza sociale gioca brutti scherzi se viene considerata un genere minore. Induce infatti in errori di valutazione degli autori, spesso considerati esempi di scrittori di serie b, utili solo per intrattenere un pubblico dalla bocca buona. Oppure possono essere salvati gli autori, per essere però liquidata come un genere di evasione, necessaria per prendere le distanze da una quotidianeità grigia e avvilente. Ordini del discorso che non tengono conto del ruolo letterariamente sofisticato e culturalmente sovversivo di scrittori come Arthur Clarke, Isaac Asimov, Philip Dick, Stanislaw Lem e Evgenij Zamjatin. O della valenza politica di autori come Adolfo Bioy Casares, Jorge Louis Borges, Bruce Sterling, William Gibson, solo per citare scrittori noti.

ATTORNO ALLA DEMOLIZIONE dei triti luoghi comuni sulla fantascienza come genere di evasione si sono cimentati, per fortuna con successo, critici, lettori, fanzine. Così la science fiction può essere considerata come una stile narrativo che parla del presente, dei suoi conflitti e aporie; si può inoltre sottolineare il ruolo di supplenza della filosofia o della sociologia contemporanee quando si pone l’obiettivo di dare forma all’utopia di un altro mondo; o di mettere a fuoco le distopie del presente, mettendo a critica le forme di potere politiche e sociali dominanti. Se questo è acquisito per le società capitaliste, poco o nulla si sa della fantascienza che va dagli anni Venti agli anni Ottanta del Novecento.
È dunque meritoria l’operazione editoriale messa in campo dalla casa editrice Alcatraz di pubblicare la fantascienza prodotta in Unione Sovietica (e si spera anche negli altri paesi del socialismo reale) a partire dal libro di Aleksandr Beljaev Uomo anfibio (pp. 223, euro 18, www.agenziaalcatraz.it, collana Solaris, traduzione Kollectiv Ulyanov), a cui seguirà Stella rossa di Alexsandr Bogdanov.

La fortuna dell’Uomo Anfibio sta nel successo che l’uscita del libro ha avuto nei primi anni postrivoluzionari sovietici e per essere stato tradotto anche negli Stati Uniti, ispirando varie sceneggiature di film hollywoodiani fino al recente La forma dell’acqua di Guillermo Del Toro. Ma è anche uno dei primi romanzi che affrontano le possibilità di manipolazione del corpo in una prospettiva postumana.

C’È DUNQUE UN ESSERE anfibio nato dal bisturi di un geniale medico che scorrazza per il mare davanti le coste argentine. Interviene contro spregiudicati pescatori di perle per salvare i pesci dalle reti assassine. Si innamora di una ragazza vista sulla spiaggia, ma deve difendersi anche dal tentativo di cattura orchestrato da un pescatore di perle che lo vorrebbe esporre in un circo come un mostro umano.
Lo scrittore mette in scena una società che ha intrapreso la strada dell’industrializzazione, vedendo corrompersi gli antichi legami sociali giorno dopo giorno, mentre crescono le altrettanto feroci gerarchie sociali del capitalismo predatorio.

NON È DATO SAPERE se Aleksandr Beljaev volesse compiacere le autorità sovietiche nel denunciare i ricchi argentini, ma è evidente che nelle pagine de L’uomo anfibio scorre una critica all’utopia che vede nella scienza una ideologia e una pratica di manipolazione della natura non così distante dall’operato dei burocrati del socialismo di stato.

LA SCIENZA SI È SOSTITUITA a dio o alla natura. Il romanzo strizza certo l’occhio al romaticismo – la storia di amore tra l’uomo anfibio e la ragazza è a tratti struggente – e una certa postura conformista nell’osannare il duro lavoro dei marinai o dei contadini, mentre Buenos Aires è una città tentacolare, nido per truffatori, criminali e cinici capitalisti, ma ciò che è centrale è la critica a una scienza e a una società che alienano la natura umana, anche quando è anfibia. Un mondo dal quale fuggire è possibile, facendosi trasportare fiduciosamente dalla corrente dell’autenticità. Con un ritorno allo stato di natura che cancella però la natura umana, cioè quella caratteristica che i protagonisti volevano salvare.