Al tavolo ci sono, come ogni anno, Thierry Frémaux e Pierre Lescure, delegato generale e presidente del Festival di Cannes, dall’alto li osserva Agnés Varda, ragazza spavalda  dietro la macchina da presa di Le pointe courte. E proprio alla regista scomparsa da pochi giorni, a cui è dedicato  il manifesto dell’edizione 2019, vanno le prime parole di Lescure – dopo le scuse per il ritardo – che ricorda la Palma d’onore consegnata a Varda quattro anni fa, e la sua presenza la scorsa edizione in prima fila sulla scalinata con le altre donne a rivendicare la parità di genere nel cinema e in qualsiasi altro campo. «Questa fotografia ci mostra una giovane di ventisei anni completamente immersa nell’impegno del cinema fino a saltare sulle spalle del suo collaboratore».

CHISSÀ se lo stesso impeto attraverserà il programma del prossimo Festival (14-25 maggio) che in effetti, almeno per ora, promette di essere uno dei migliori degli ultimi anni. Mancano ancora dei titoli, saranno annunciati i prossimi giorni, a cominciare da Once Upon a Time in Hollywood di Quentin Tarantino dato per certo, che ora sembra in ritardo – «Spero di ricevere una bella notizia, Quentin ha lavorato duramente perché fosse pronto entro maggio, ma lavorare in 35 mm è un processo più lungo» ha detto Frémaux . O il nuovo capitolo di Mektoub my Love di Kechiche, anche questo tra i possibili nomi sulla Croisette, così come Zhang Yimou scomparso dal programma della Berlinale sembra per problemi di censura – «Ci sarebbe piaciuto mostrare il suo film dopo che il nostro collega Dieter Kosslick non l’ha potuto fare» è stata a proposito l’enigmatica affermazione di Frémaux. Si vedrà, è la suspense che fa parte del gioco.

 


Diciannove i film nel concorso che sarà aperto da Jim Jarmusch – The Dead don’t Die – premiato da una giuria guidata da Inarritu, e nel quale il cinema italiano è rappresentato da Il traditore di Marco Bellocchio. Ai «soliti noti», quei nomi che non possono mancare in una selezione di alto livello di un grande festival mondiale, e che col festival francese hanno un legame speciale – Pedro Almodovar (Dolor y Gloria); Ken Loach (Sorry We Missed You); Jean Pierre e Luc Dardenne (Le jeune Ahmed); Xavier Dolan (Matthias et Maxime); Elia Suleiman (It Must Be Heaven); Terrence Malick (A Hidden Life); Cornelio Porumboiu ( Les siffleur) in competizione, e fuori concorso Abel Ferrara (Tommaso), Alain Cavalier (Etre vivant et le savoir) – si uniscono nomi più giovani, specie nel cinema francese, che scommette soprattutto sulle registe.

 

Alcune come Justine Triet (Sibyl) o Celine Sciamma (Portrait de la jeune fille en feu) rivelate dal Festival – la prima con Victoria (2016) era diventata il «caso» dell’edizione 2016 (il film era alla Semaine de la critique), la seconda aveva conquistato la Croisette col geniale Bande de filles (alla Quinzaine, in Italia uscito come Diamante nero). Altri che invece arrivano da circuiti più indipendenti, in passato sarebbero passati alla Quinzaine ma sappiamo che da qualche tempo le logiche sono state scompigliate e sempre più spesso le selezioni ufficiali cercano esordi o quasi. Per esempio Mati Diop (Atlantique), attrice (tra gli altri per Claire Denis in 35 Rhums) regista di Mille soleil un viaggio in Africa, in Senegal, alla ricerca dei luoghi sentimentali e nella memoria del cinema di suo zio, Djibril Diop Mambety, meraviglioso inventore della nouvelle vague africana. O Ladj Ly, anche lui un debutto di attore, poi cineasta, narratore della banlieue nel suo esordio 365 jours à Clichy-Montfermeil (2005), che ritorna anche in questo Les Miserables.

 

L’IMPRESSIONE è che Frémaux abbia voluto movimentare la sua griglia. Ne è prova il Certain Regard che unisce Bruno Dumont (Jeanne, sequel di Jeannette), Christophe Honoré (Chambre 212), Oliver Laxe (Viendra le feu), Albert Serra (Liberté, che sembra riprendere la decadenza del XVIII secolo di La morte di Luigi XIV), Kantemir Balagov (Dylda), Midi Z (Nina Wu ispirato al caso Weinstein).

RESTANO la mancanza di Hollywood e insieme la questione Neflix ai cui film continua a essere precluso il concorso, scelta del tutto conseguente a un sistema come quello francese del quale la sala e l’esercizio garantiscono l’esistenza. «Due anni fa abbiamo selezionato due film Netflix , sperando di dare inizio alla discussione (sui nuovi media, ndr) all’interno del festival più importante del mondo. All’epoca pensavamo di poter richiedere a Netflix di mostrare i film nei cinema. Ma il loro modello di business e politico non lo consente» ha detto Frémaux. E ha aggiunto Lescure: «La questione non si riduce alla partita giocata l’anno scorso fra noi, Netflix, Roma (di Cuaron) e Venezia. Netflix non ha rispettato le regole in Francia e noi l’abbiamo sospesa dalla competizione. Pur restando attenti alla rivoluzione in atto nel cinema».