Età dell’oro del roman-feuilleton – è del 1843 il successo senza precedenti dei Misteri di Parigi di Eugène Sue, fra il ’44 e il ’46 Alexandre Dumas padre pubblica I tre moschettieri e Il conte di Montecristo – gli anni quaranta dell’Ottocento sembrano segnare il declino irreversibile di Balzac, il romanziere che aveva dominato la scena parigina nel decennio precedente. Ma l’autore della Commedia umana, capace di far proprie le ricette del romanzo d’appendice senza rinunciare all’ambivalente complessità di una narrazione dal ritmo franto e imprevedibile, nel biennio 1846-’47 torna clamorosamente in voga, con la pubblicazione di tre assoluti capolavori: l’ultima parte di Splendori e miserie delle cortigiane e il dittico dei Parenti poveri, composto da La cugina Betta e Il cugino Pons. Dei tre, l’ultimo romanzo è certamente il meno noto – non il meno bello – e apre felicemente, nell’ottima traduzione di Giovanni Bogliolo, il terzo volume dell’edizione parziale della Commedia umana curata nei «Meridiani» da Mariolina Bongiovanni Bertini (Mondadori, pp. 1592, euro 60,00).

Musicista di scarso successo, e condannato da un fisico grottesco a rinunciare alle gioie dell’amore, Pons trova «nei piaceri del collezionismo» e nel vizio innocente della gola «compensazioni» capaci di dar sfogo per quarant’anni a tutte le sue energie libidiche; la sua «mania» antiquaria è «piacere sublimato in idea»; per i suoi quadri nutre un’«avarizia insaziabile» e «l’amore di un innamorato». In questo, è affine al suo spregiudicato rivale, il mercante ebreo Élie Magus, «anima votata al lucro, fredda come un pezzo di ghiaccio», capace però di infiammarsi di fronte a un Sebastiano del Piombo; e non è molto distante dai grandi avari balzachiani – Gobseck, Grandet, Hochon – che godono del contatto fisico con oro e denaro.

Non c’è contraddizione, in Pons, fra disarmante ingenuità nei rapporti umani da un lato e acume critico nell’individuare i capolavori, astuzia commerciale nel contrattarne il prezzo dall’altro: l’antropologia balzachiana, debitrice del coevo paradigma delle monomanie imposto dall’alienista Jean-Étienne Dominique Esquirol, inventa uno «specialismo» delle funzioni psichiche che pare immagine dell’incipiente divisione capitalistica del lavoro. E impone sublimazione, compensazione: è il testo stesso a suggerire come per Balzac ogni forma di arte (letteratura compresa) sia ripiego e rifugio, succedaneo dell’azione (erotica, economica, politica). Non a caso, in punto di morte, dopo l’addio alle «vanità dell’arte», Pons recupera un’insospettabile lucidità pragmatica, comprende quali «sacche di fiele» alberghino nell’animo umano e riesce a giocare ai suoi avversari un tiro degno di uno scoppiettante vaudeville. Solo in apparenza, però, la storia rivaleggia sullo stesso terreno con le complicazioni narrative e il facile manicheismo del roman-feuilleton: fra i due estremi dell’arresa, fanciullesca bontà del pianista tedesco Schmucke, compagno tenerissimo di Pons, e della luciferina perversione del pustoloso Fraisier, avvocaticchio rotto a ogni corruzione, si squaderna un’umanità opaca, capace di vegetare per decenni in una sciatta «probità», finché lo sprone dell’interesse, «idea fissa» in un’epoca «in cui la moneta da cento soldi si annida in fondo a tutte le coscienze», non ne fa affiorare l’ignominia.

Così uno dei personaggi più memorabili di tutto il romanzo francese, la corpulenta Cibot, «buon cuore di popolana», in gioventù «bella ostricaia», poi anonima portinaia (la guardiola diventa per lei «come il guscio per l’ostrica»), capace di servire per anni e fedelmente i due musicisti, immaginandoli poveri, si trasforma in spietato aguzzino «dall’occhio arancione», in «spaventosa lady Macbeth di strada», quando scopre il valore della collezione, e dunque dell’eredità, del malandato Pons. Nella Commedia umana, diceva Baudelaire, «anche le portinaie sono geniali»: e possono esercitare sugli inquilini un dispotismo che riproduce, nel microcosmo del quotidiano, la più inumana tirannia sociale.

Più sottile ma non meno letale, una feroce convergenza di interessi meschini rende diversamente complici del delitto il medico curante, i parenti ricchi, i mercanti d’arte, la serva (nomen omen) Sauvage, «l’illustre Gaudissart», cialtronesco e immanicatissimo direttore di teatro: in una moltiplicazione virtuosistica di intrighi intersecati che è, come sempre nel migliore Balzac storico dei «costumi», tanto inverosimile nel dettaglio quanto inoppugnabile nella sua evidenza psichica e sociale – cioè realistica.
Che al contrario l’autore della Commedia umana sia «visionario» almeno quanto realista, e voglia essere filosofo non meno che narratore, è tesi critica di illustre tradizione, dallo stesso Baudelaire a Ernst Robert Curtius: tesi a lungo minoritaria; poi à la page e perfino egemone nei decenni di fine Novecento che hanno bandito il lemma «realismo» dal lessico della teoria letteraria; e oggi senz’altro canonica: benissimo ha fatto perciò Bongiovanni Bertini a offrirne, con i suoi tre «Meridiani» – grande impresa editoriale che giunge a compimento dopo quasi vent’anni: il primo volume è del 1994 –, un’aggiornata illustrazione, di cui è ora possibile apprezzare il disegno coerente, anche se l’opera di Balzac, cattedrale di carta paradossalmente perfetta nella sua proliferante incompiutezza, si presta male all’esercizio antologico.

Se è vero che qualsiasi rinuncia avrebbe minato i segreti equilibri architettonici dell’insieme, non mette conto soffermarsi sul rimpianto per le inevitabili assenze, che per lo più non pregiudicano l’esemplarità della scelta (unica lacuna di rilievo, un sotto-genere eminentemente balzachiano come il romanzo breve, o racconto lungo, di argomento contemporaneo: il sinistro Gobseck, l’inerme Parroco di Tours, l’enigmatica Honorine). Il primo volume comprende sei romanzi che hanno decretato il successo dello scrittore (come il Père Goriot e Eugénie Grandet) e la Storia dei tredici, splendida trilogia tramata di enigmi metropolitani e conturbante erotismo. Il secondo è interamente occupato dai due grandi romanzi di Lucien de Rubempré, Illusioni perdute e Splendori e miserie delle cortigiane.

In questo terzo, il più eteroclito, al Cugino Pons fanno seguito testi di genere, ispirazione (e valore) diverso: la breve incursione nell’esotismo titolata Una passione nel deserto, storia sensuale del rapporto fra un soldato francese e una pantera, o leopardo, in un’oasi egiziana; una vicenda romantica d’amore impossibile, assoluto e puro, Il giglio nella valle, ambientato nella familiare Turenna, scritto in competizione con il Sainte-Beuve di Volupté e tramato di lussureggianti descrizioni paesaggistiche e floreali, chiamate a dare una quasi barocca espressione metaforica alla passione di Félix de Vandenesse; il primo successo del Balzac ortonimo, La pelle di zigrino, concepito sulla scia delle traduzioni di E.T.A. Hoffmann, ma già capace di piegare la voga del fantastico e il gusto della deformazione grottesca all’urgenza di un’allegoria psico-sociale: il talismano del titolo si restringe, e la vita di Raphaël de Valentin si accorcia, a ogni desiderio realizzato. E, ancora, un racconto dell’artista notissimo (ma qui proposto nella nuova, impeccabile versione di Gabriella Mezzanotte), Il capolavoro sconosciuto , che dà esempio di un analogo principio di energetica – il pensiero, come il desiderio, uccide: sulla vicenda di Frenhofer, il pittore protagonista, che per ansia di perfezione ritocca un nudo femminile fino a trasformarlo in un informe «muro di pittura», in un caos di «colori confusamente ammassati», continuano a interrogarsi, dopo Cézanne e Picasso, critici, filosofi e storici dell’arte. C’è poi un omaggio alla moda del racconto storico, I proscritti , che conta fra i protagonisti Dante Alighieri e Sigieri di Brabante, in una pittoresca Parigi trecentesca che si fa scenario da melodramma; infine Séraphîta, lo «studio filosofico» in cui si dispiega, riprendendo il mito dell’androgino e adottando come sfondo un’improbabile Norvegia, il misticismo balzachiano, mutuato da letture assidue quanto disordinate di teosofi e illuminati, da Swedenborg a Louis-Claude de Saint-Martin.

Senza discostarsi dall’ordine, tematico e non cronologico, della Commedia umana, il volume racchiude dunque in sé quella sorprendente varietà di materiali narrativi, generi letterari e soluzioni stilistiche che fa di Balzac uno scrittore refrattario alle troppo univoche etichette di cui lo ha gratificato la critica (principe del racconto, capostipite del romanzo moderno, padre della descrizione realista, ecc.); e al tempo stesso offre esempi numerosi di quelle sotterranee ricorrenze tematiche che assicurano l’unità dell’opera. Così, la passione esclusiva per l’arte è condivisa non solo dal mite Pons e dal pittore Frenhofer, ma anche da Élie Magus che, disponendo di una rete infallibile di informatori e tessendo le sue trame nei più diversi contesti sociali, si trasforma in imprevedibile controfigura del romanziere; del resto, Magus è antiquario, come l’inquietante centenario che vende il talismano a Raphaël, nella Pelle di zigrino, facendosi così demiurgo della vita del giovane; e antiquario è anche il ripugnante Rémonencq, truffatore e omicida nel Cugino Pons: in un corto circuito vertiginoso fra arte e denaro, fra passato e presente, fra suggestioni del fantastico e realtà quotidiana, fra intensità passionale e ironica derisione, che è forse il nucleo generativo più profondo della Commedia umana. Mentre l’utopia di una «perfezione terrestre» ricollega la protagonista del Giglio nella valle alla «perfezione celeste» di Séraphîta.

Se c’è però un elemento che più di altri accomuna molti di questi testi è l’insolita densità dei rinvii autobiografici: al giovane Raphaël toccano difficoltà e tentazioni di una gioventù talentuosa e sprovvista di mezzi, trasposte in quel 1830 che vede il cinico trionfo della bottegaia monarchia d’Orléans; a Félix de Vandenesse, Balzac presta il trauma immedicabile di una carenza d’affetto materno, e l’amore a forte coloritura edipica per una donna più anziana; a Pons la «bricabracomania» degli anni tardi, la passione per anticaglie e oggetti d’arte d’inestimabile e misconosciuto valore. Di queste sottili implicazioni fra il vissuto e l’invenzione romanzesca danno conto, con eleganza affabulatoria, le introduzioni della curatrice; e, per Il cugino Pons, l’imponente apparato di note, in cui Claudia Moro, con scavo erudito puntiglioso e ammirevole, illumina gli echi interni alla Commedia umana, i riferimenti storico-culturali e appunto l’incidenza delle sublimazioni autobiografiche: offrendo all’interpretazione un materiale prezioso e in larga misura nuovo. Spiace che l’annotazione degli altri testi di questo terzo volume – con l’eccezione di Una passione nel deserto – sia affidata a altre mani: il cui lavoro, pur pregevole, non regge il confronto.

Poco male, perché Pons è il pezzo forte di un volume che avrebbe guadagnato molto a includere anche La cugina Bette, l’altro capolavoro della maturità sacrificato da Bongiovanni Bertini sull’altare del Balzac «visionario», per dare spazio al Giglio nella valle e a Séraphîta – testo, quest’ultimo, che certo ha avuto «una piccola schiera eletta di cultori», come Gaston Bachelard e Mircea Eliade, e tuttavia concede qualche plausibilità alla definizione di un contemporaneo recensore cattolico: «un’accozzaglia di stravaganze […], travestita da apocalisse». È giusto che una scelta antologica voglia dar conto anche di un versante dell’opera balzachiana, quello mistico, poco noto al pubblico italiano; nondimeno pare incongruo (ed è solo un esempio) che un gioiello come La zitella, affresco di vita provinciale, tour de force di ironia scollacciata, allegoria storico-sociale, quasi rovescio sapido e terragno di ogni tentazione mistica, non sia mai stato, salvo errore, tradotto di qua dalle Alpi; mentre I contadini, romanzo incompiuto su cui György Lukács ha scritto nel 1934 un saggio insuperato, da anni è assente dalle nostre librerie.

Conviene chiedersi se i tempi (di crisi, speculazione finanziaria, rivolgimenti sociali) non siano maturi per un ripensamento – non necessariamente una restaurazione – del canone balzachiano e della sua tradizione critica. Nell’attesa che un editore, magari piccolo e visionario, trovi il coraggio (in barba alla crisi) di mettere finalmente in cantiere la prima traduzione italiana integrale della Commedia umana.