Un pari fra Hillary Clinton e Bernie Sanders. La vittoria del conservatore integralista Ted Cruz sull’invincibile Trump. I verdetti dei caucus dell’Iowa hanno inaugurato le primarie presidenziali sfatando qualche mito senza confutare del tutto i pronostici. Gli scrutini dell’Iowa servono a separare i candidati plausibili dagli improponibili, a conferire l’impagabile aura di vincitori o la fatale reputazione da perdente. Non è quindi imperativo vincere ma battere le aspettative. Meglio a volte piazzarsi terzo battendo i pronostici che vincere con un margine minore di quello previsto dai sondaggi.

In campo repubblicano la vittoria di Cruz ha confermato le credenziali teocon del senator texano con un elettorato fortemente evangelico e tradizionalista. Ma il vero bottino è stato superare Trump, favorito infine nei sondaggi dopo un paio di settimane di testa a testa.

 

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Per Trump lo smacco non è la manciata di delegati in meno ma la figura barbina dopo mesi di campagna fondata sull’immagine di «vincitore nato». Trump è ancora in testa nei sondaggi in New Hampshire in quelli nazionali ma la sua campagna post-ideologica e «post-politica», giocata interamente su percezione e «narrazione», ha sicuramente subito un’incrinatura. Non lo aiuterà presumibilmente il tweet petulante e risentito del post-sconfitta: «Gli elettori non riconoscono il valore del mio auto-finanziamento. Continuerò ma non vale la pena».

L’altro vincitore fra i repubblicani è stato Marco Rubio piazzato terzo ad un soffio da Trump. Il 23% di consensi raccolto dal senatore cubano-americano della Florida ha rincuorato l’ala moderata che negli ultimi mesi aveva assistito con orrore allo scippo del proprio partito da parte di outsider come Trump e Cruz. Su Rubio si concentreranno ora plausibilmente le speranze (e i finanziamenti) dell’establishment Gop.

In uno stato minuscolo e scarsamente rappresentativo del Paese (rurale, bianco al 91%), le votazioni sono avvenute in 1600 circoscrizioni circa attraverso un sistema che taluni comparano alla democrazia «ateniese» ma che somigliano forse più ad assemblee di villaggio nelle colonie puritane. Lunedì sera, dopo l’orario di lavoro, circa 200 mila cittadini si sono dati appuntamento in biblioteche, parrocchie e palestre di scuola per selezionare i delegati che rappresenteranno i candidati alle convention nazionali di luglio.

Le assemblee iniziano al solito con discorsi a favore di ogni candidato. Poi, nei caucus repubblicani vengono distribuite schede per lo scrutinio segreto. In quelli democratici invece va in scena una complicata coreografia per cui i sostenitori di ogni candidato si dividono fisicamente nello spazio; una prima conta determina se vi sono candidati che non raggiungono la soglia del 15%, in questo caso i (pochi) delegati di Martin O’ Malley (che ha poi annunciato il ritiro dalla campagna) hanno avuto l’opportunità di aggregarsi ai gruppi maggioritari, invitati e incoraggiati con cori e slogan. Una bolgia rumorosa da cui sono emersi i delegati, in questo caso, per Hillary Clinton e Bernie Sanders.

Ma mentre la conta si protraeva nella notte i risultatati sono rimasti inchiodati su una parità statistica (49,8% per Clinton; 49,5% per Sanders) ed entrambi i candidati hanno pronunciato discorsi di vittoria. Hillary Clinton che, affiancata da Bill e Chelsea, ha dichiarato di aver «tirato un sospiro di sollievo», è parsa effettivamente sollevata dall’aver contenuto una sfida che era parsa imprevedibile e nelle ultime settimane forse incontenibile. Dal canto suo, Sanders ha tenuto testa a quella che sembrava la candidata predestinata, un risultato che lo legittima definitivamente, ottenuto perdipiù senza sponsor forti – il suo fundraising di $50 milioni negli ultimi quattro mesi è provenuto da 1,3 milioni di privati cittadini – dimostrazione notevole di democrazia diretta in un sistema blindato dai finanziamenti corporativi.

Se Hillary, la cui sconfitta in Iowa nel 2008 per mano di Obama fu un pessimo presagio, si trova ancora una volta con una strada più in salita del previsto, il merito è di un riformista socialdemocratico di 74 anni che fa sognare i giovani (84% di consensi nella fascia 18-29 anni) con un «realismo idealista» capace di raccogliere in parte l’eredità di Occupy e la componente «generazionale» della Obama coalition. Al risultato dell’Iowa dovrebbe sommarsi la prossima settimana una prevista vittoria di Sanders in New Hampshire. Le rimanenti primarie – a cominciare dal South Carolina – favoriranno invece certamente Hillary che registra forti vantaggi a livello nazionale e fra le minoranze nere e ispaniche.

L’imprevisto Sanders non è nulla comunque in confronto allo scompiglio che regna in campo repubblicano. La campagna «insurrezionalista» di Donald Trump ha, sì, subito una battuta d’arresto ma la vittoria di Cruz, integralista e allergico alla disciplina di partito non ha certo rincuorato gli strateghi repubblicani. Cruz ha capitalizzato sulla alta percentuale evangelica dei repubblicani in Iowa per avanzare la propria causa profondamente reazionaria il cui estremismo potrebbe però diventare un boomerang quando si tratterà di consolidare consensi nazionali. La corsa repubblicana appare ora una gara a tre, con due candidati invisi allo stesso partito e un’ipotesi ancora plausibile di una spaccatura alla convention.

La partita repubblicana insomma è lungi dall’essere chiusa e diventa cruciale a questo punto la primaria di martedì prossimo in New Hampshire. Cruz dovrà dimostrare di saper ripetere, Rubio di poter migliorare ulteriormente e Trump di poter risorgere mentre per i minori, Bush, Christie e Kasich, si tratta plausibilmente dell’ultima spiaggia.