C’è una questione che, a differenza della guerra e della crisi climatica, dovrebbe essere affrontata e risolta tutta all’interno dei nostri confini nazionali. Emerge con chiarezza da un breve ma accurato studio di Beppe De Sario e Nicolò Giangrande per la Fondazione Giuseppe Di Vittorio (L’impatto della crisi demografica italiana sul lavoro, agosto 2022). Dal 2014 al 2022 la popolazione residente in Italia si è ridotta di 1,4 milioni di individui a causa di un saldo naturale (differenza tra il numero dei nati e il numero dei morti) divenuto negativo per oltre 200 mila unità all’anno e di un saldo migratorio (differenza tra il numero dei trasferiti dall’estero e il numero dei trasferiti all’estero) ancora positivo ma che tende ad azzerarsi.

Si profila uno scenario ancor più allarmante di quello già poco rassicurante disegnato dallo studio Censis lo scorso anno (L’Italia e le dinamiche demografiche, aprile 2021) che prefigurava una caduta di 3 milioni di residenti ma entro il 2050. De Sario e Giangrande sottolineano, in particolare, gli impatti che la riduzione della popolazione avrà sul mercato del lavoro, sulla previdenza e sull’assistenza. In venti anni, da qui al 2042, ci saranno 6,8 milioni in meno di persone in età lavorativa e la quota di popolazione giovane e anziana che graverà su quella in età da lavoro, passerà dall’attuale 57,5% all’82,5%. Uno squilibrio insostenibile. Ma non solo dal punto di vista della previdenza e dell’assistenza.

Una riduzione così marcata deve essere associata a una contrazione del Pil con conseguenze gravi sulla tenuta dei conti pubblici in presenza di un debito elevato. Con meno risorse a disposizione, inoltre, quello che è stato (correttamente) definito egoismo territoriale diverrebbe lotta per la sopravvivenza e a farne le spese sarebbe l’unità del Paese, minacciata da pulsioni separatiste che si manifestano ormai da anni in forme più o meno camuffate.

L’invecchiamento della popolazione comporta a sua volta una riduzione della base riproduttiva, ovvero del numero delle donne in età fertile, e concorre alla contrazione dell’indice di fertilità, ora pari a 1,24 figli per donna mentre la media europea è di 1,50 (Eurostat 2020). Le statistiche dicono inoltre che il crollo della natalità sarebbe anche più elevato se non fosse (parzialmente) compensato, soprattutto al Nord, dalla presenza di donne straniere.

Non c’è dubbio, e lo dimostra in particolare il caso francese, che a scoraggiare la natalità in Italia sia anche l’insufficienza delle politiche a sostegno della genitorialità e la carenza, drammatica al Mezzogiorno, di servizi per l’infanzia. È su questo che sinora si è concentrata quel poco di attenzione che la politica, soprattutto di destra, ha riservato alla questione ma con un secondo fine neppure sottinteso: contrastare l’immigrazione e opporsi alla sostituzione etnica in atto.

Matteo Salvini promette incentivi e asili nido con la spudorata ipocrisia di chi ha inserito l’autonomia differenziata al primo punto dell’agenda del prossimo governo quando sa o dovrebbe sapere che il declino demografico è particolarmente accentuato al Sud. Giorgia Meloni vorrebbe introdurre il quoziente familiare ma senza spiegare come questa misura possa conciliarsi con il mantra della flat tax. In Francia, ad esempio, il quoziente ottenuto sommando i redditi prodotti in famiglia e dividendo per il numero delle parti (semplificando il numero dei componenti) consente di individuare lo scaglione fiscale da applicare. Ma la flat tax abolirebbe ogni scaglione rendendo, perciò, inapplicabile il quoziente familiare! Salvini e Meloni mostrano, infine, di ignorare che non saranno sufficienti nuove nascite stimolate da interventi a sostegno dei redditi delle famiglie a invertire la rotta della demografia italiana, almeno non nel breve termine.

Gli incentivi potrebbero avere effetto solo nel medio-lungo termine. Oggi siamo in emergenza. Diciamolo con chiarezza: l’Italia ha bisogno di flussi migratori in entrata per compensare i saldi demografici negativi, contrastare l’invecchiamento, difendere i livelli di progresso e di civiltà raggiunti, scongiurare l’insolvenza del debito pubblico, non implodere sotto il peso di una divaricazione territoriale non più sostenibile. Un default sociale e civile prima ancora che economico. Conservare questa Italia così com’è corrisponde a farla morire.