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Non essere Dio, ovvero rifiutare gli assoluti, ecco il compito di un’intera vita, quella di Gianni Vattimo, filosofo, ripercorsa insieme a Giorgio Paterlini in Non essere Dio. Un’autobiografia a quattro mani (Ponte alle Grazie, pp. 224, euro 15). Un ritratto di sé che può ricordare i «Saggi» di Montaigne, non solo per l’ironia che percorre tutta la narrazione e per lo stile che varia in continuazione, dall’anedotto biografico, al saggio filosofico breve e fulminante, all’intervento sull’attualità, ma anche e soprattutto per lo scetticisimo di fondo che è la cifra filosofica del nostro come già del gentiluomo perigordino del XVI secolo.

Allora erano stati soprattutto i conflitti religiosi e la scoperta del Nuovo Mondo a indurre la crisi scettica di Montaigne, quando il vecchio mondo era ormai morto e quello nuovo iniziava appena a configurarsi in una condizione sospesa tra il non più e il non ancora. Una condizione che torna a proporsi oggi, quando la forza propulsiva della modernità si è consumata e un mondo nuovo inizia lentamente a prendere forma dalle macerie di quello vecchio, tra scosse telluriche e molteplici contraddizioni. È la globalizzazione, ciò che culturalmente chiamiamo il postmoderno, da sempre tema vattimiano per eccellenza.

Nell’avventura filosofica di Vattimo, come è noto, da sempre lo accompagnano Nietzsche e Heidegger, il primo a confermare che se il mondo vero è diventato favola, allora anche il mondo apparente non è più meno vero, e che se ci si libera dalle verità assolute quello che ci rimane sono le interpretazioni. Il secondo, il mago di Messkirch, a ricordare che l’Essere si da nascondendosi, ovvero, e qui interviene l’interpretazione di Vattimo che aggiunge l’accento sulla congiunzione heideggeriana, che l’Essere è tempo, e quindi è linguaggio perché coincide con gli orizzonti storico-linguitici che si succedono nelle diverse epoche storiche, secondo la lezione di Gadamer «urbanizzatore» di Heidegger.

Ora se l’Essere, sottoposto a una cura dimagrante, si è fatto leggero, e la verità forte della metafisica si è dissolta a favore di una verità debole, l’Essere che la metafisica occidentale ha scordato a favore degli enti non va certo restaurato, ma piuttosto rammemorato. E proprio questo mondo esploso in cui le verità sono tante quante le differenze, in cui ciò che è in gioco è un conflitto di interpretazioni, questo mondo globalizzato in cui la tecnica ha colonizzato definitivamente l’esistente, è anche e soprattutto un’occasione di liberazione per Vattimo, fedele in questo al celebre verso di Hölderlin secondo il quale «là dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva».

Un’occasione di liberazione dalle verità forti che sono sempre anche violente, dalle identità blindate e dalle tradizioni autoritarie. Eppure, qui l’obiezione critica, questo pensiero «libertario» che scommette sulla globalizzazione e la differenza, seppur eticamente schierato dalla parte dei più deboli, rischia di diventare apologia dell’esistente quando nel suo scetticismo sembra dimenticare la verità «dura» del Capitale e dei suoi rapporti sociali, quando la celebrazione della fine della Verità con la maiuscola sembra dimenticare che la verità, dopo il moderno, non si perde in un caleidoscopio multicolore, ma è quella verità scritta con la minuscola eppure potente e concreta, quella verità materialista costruita con le nostre mani.
Un pensiero, insomma, che da libertario tende ad accomodarsi nella più classica delle tradizioni liberali quando si nasconde dietro il fumo di una «destinalità» che non è mai politicamente innocente.

In conclusione, per tornare a Montaigne, questa è una sorta di «circumnavigazione» di sé, che va dalla periferia torinese dove Vattimo è nato, figlio di un poliziotto calabrese e di una sarta, alla militanza cattolica, anche lui come molte delle menti migliori del Belpaese, nella Giac, dall’Università dove è allievo prediletto di Pareyson, alla scoperta della propria omosessualità vissuta inizialmente con difficoltà, ma senza mai rinunciare ad affermarla tanto da diventare un militante del «Fuori». Passando per la Rai degli esordi dove lavora insieme a Colombo ed Eco, alle scuole serali dove gli operai delle grandi fabbriche si preparavano alla licenza media e capitava che regalassero al giovane insegnante indimenticabili lampi di poesia, attraverso la carriera accademica internazionale, il successo mediatico, l’impegno politico e la riscoperta del comunismo. Per arrivare, infine, all’organizzazione di una vita privata retta da un’architettura amorosa delicata e commovente, attraversata dal dolore, fatta di equilibri fragili ma sempre appasionati e fondati sulla «cura» reciproca. Una vita «libera», raccontata qui con autentico trasporto.