«Noi esercenti e lavoratori che da decenni manteniamo aperte e funzionanti le nostre sale vogliamo utilizzare questa sospensione non solo per mettere a fuoco il futuro del nostro lavoro in relazione alla questione della pandemia, ma anche per fare di questa fase un momento di riflessione sull’importanza della sala e progettare insieme un futuro del cinema plurale, sostenibile, equo». Lo scrivono in una lettera aperta pubblicata online – al link lasci.cloud – un gruppo di esercenti e distributori indipendenti, che in pochi giorni hanno raccolto oltre 5000 firme.

UNA LETTERA che non affronta quindi solo il problema del lockdown, della chiusura delle sale e dell’evanescenza del governo in merito alla riapertura, ma sostiene la necessità di ripensare, approfittando di questa fase di stallo, il sistema dell’esercizio e della distribuzione, e cerca di portare in primo piano anche il ruolo fondamentale di realtà piccole ed eccentriche rispetto a quelle più commerciali. Bisogna «dare la possibilità di esistenza, anche dopo la riapertura dei cinema, a una pluralità di sguardi e di modalità di gestione delle sale – spiega Paola Corti del Beltrade di Milano – e non appiattirsi dentro pochi circuiti: la ricchezza delle sale cosiddette di profondità è quella di fare una programmazione che sia ampia, plurale», non necessariamente coincidente con le logiche industriali.
In questi giorni – racconta Umberto Parlagreco dell’Iris di Messina a proposito della scelta di scrivere la lettera – «abbiamo letto tantissimi articoli sul cinema che però con il cinema non c’entrano niente. Ad esempio guide su come riprodurre l’esperienza cinematografica a casa con tanto di link Amazon su cui comprare degli home theater costosissimi». O articoli in cui c’è una sovrapposizione di streaming e cinema, «come se fosse la stessa cosa», o come se lo streaming si potesse considerare il «salvatore» delle sale. «Le nostre strutture indipendenti – dice ancora Parlagreco – sono frequentate da centinaia di persone. Se si sostituisce il cinema con lo streaming queste persone verranno totalmente ’cancellate’».

FRA I PUNTI avanzati dalla lettera aperta c’è quindi in primo luogo il bisogno di coinvolgere nel processo decisionale, nel confronto sul «dopo», anche le sale piccole, indipendenti, di provincia: «Non si deve lasciare indietro nessuno», come spiegano dal Postmodernissimo di Perugia. «Spesso ci si occupa di situazioni più strutturate, economicamente capaci di trasformarsi in tempi rapidi, e ci si dimentica del piccolo esercizio. Noi chiediamo di rispettare le singolarità di ciascuna sala». È impossibile ad esempio pensare che delle piccole sale storiche in uno dei tanti borghi medievali italiani possano organizzarsi per la ripartenza allo stesso modo di catene come Uci o The Space: «Per noi che gestiamo sale piccole c’è una grande confusione: quante persone potremo far entrare a capienza ridotta? Come gestiremo i flussi?».

DURANTE il lockdown, aggiunge Monica Naldi del Beltrade, «le problematiche del settore cinematografico, e dell’esercizio in particolare, sono emerse ancora di più. Non c’è solo la crisi dovuta alla sosta, ma diventa molto evidente il rischio che con la riapertura certi meccanismi possano esacerbarsi anziché essere rimessi in discussione».

Ma quali sono questi meccanismi? La lettera aperta propone alcuni elementi di discussione per il futuro del sistema cinema in Italia. Fra questi, la necessità di proteggere il «diritto theatrical», l’accessibilità delle sale ai film prodotti per le piattaforme streaming o le tv che però hanno avuto anche una distribuzione cinematografica. «Permettendo così ai cinema- recita la lettera – di poter programmare anche film più vecchi all’interno di omaggi, retrospettive, cineforum». Questo non vuol dire che le piattaforme non debbano esistere, e anzi come spiega Naldi «possono essere un sostegno alla cultura cinematografica: più modalità di fruizione del cinema ci sono e meglio è. Però una sala deve avere la possibilità di accedere al prodotto».

E poi, ancora una volta, il riconoscimento della pluralità, la necessità di non considerare solo l’aspetto industriale, fondato sul profitto, del cinema: «Le nostre strutture – continua la lettera – riescono a offrire al pubblico una varietà di visioni con grandi difficoltà. Non solo per la mancanza di film, dei relativi supporti alla proiezione e dei diritti, ma anche a causa di un persistente conflitto di interessi all’interno della filiera distributiva-esercizio che privilegia sfruttamenti intensivi e rapidi che non tengono conto della possibilità di una curatela personalizzata dei cinema indipendenti».

INOLTRE ci sono i costi spesso eccessivi da sostenere, ad esempio per i cosiddetti minimi garantiti: il prezzo fisso da pagare alla distribuzione per programmare un film e in cui «il rischio di impresa – come spiega Parlagreco – è tutto sulle spalle dell’esercente». Serve anche, aggiungono dal Postmodernissimo, una maggiore libertà di scelta: «Se paragoniamo la filiera alimentare a quella cinematografica, noi non abbiamo neanche la libertà di scegliere come fare le nostre promozioni come farebbe un supermercato – spesso e volentieri ci viene imposto anche il prezzo del biglietto».

IL LOCKDOWN ha reso urgente ovunque nel mondo, anche in una realtà come quella statunitense, un ripensamento del sistema cinematografico, spesso in peggio. È il caso della «guerra» fra Universal e la catena cinematografica Amc dopo l’annuncio dello Studio di voler lanciare, da adesso in poi, alcuni film contemporaneamente in sala e in streaming: un’accelerazione di quello smantellamento del ruolo centrale della sala cinematografica a cui stavamo assistendo anche prima del lockdown. Ma se le stesse major, sottolinea Parlagreco, «ipotizzano una mutazione del modello di business, perché non possiamo anche noi pensare dei cambiamenti» – e in meglio?

«MA QUELLO che volevamo sottolineare con questa lettera – dicono dal Postmodernissimo – è che oltre al mondo della macroeconomia cinematografica ce n’è una diffusa, capillare, di profondità, quartiere per quartiere, città per città, che non è stata minimamente presa in considerazione, coinvolta nel dibattito. Si è parlato di drive-in: un’idea di cinema che vede il profitto ad ogni costo, senza contemplare quali possano essere le reali condizioni del settore. Un po’ come la suggestione del ’Netflix della cultura’: significa che anche la cultura deve piegarsi al modello Netflix? E chi invece vive di socialità, che fa del suo lavoro un momento collettivo, di comunità, cosa farà?».