Le piazze romane vuote e desolate nel venerdì nero di un finale di campagna elettorale. Le piazze straripanti di Genova e Palermo nel sabato dei funerali di Don Gallo e della beatificazione di Don Puglisi. Da una parte il deserto politico, l’assenza di personalità capaci di testimoniare la passione per il bene comune, dall’altra il senso di vite spese per gli altri, a qualunque prezzo, che fosse la sospensione dai sacramenti o l’immolarsi contro la mafia.

Non poteva esserci confronto più spietato e veritiero, né distanza più grande tra le parole afone dei professionisti della politica e il messaggio ricco e contagioso dei preti di strada, tra quei palchi tristi sovrastati dalle bandiere della società dello spettacolo e quella bara di Don Gallo con la bandiera rossa finalmente diventata straccio pasoliniano.

Non sappiamo quanti dei sette milioni di italiani chiamati al voto eserciteranno il diritto elettorale. Sappiamo, invece, che dai giorni della valanga dei sindaci arancione, solo due anni fa, sembra trascorsa un’era geologica. Una nuova glaciazione ha pietrificato le ultime riserve di fiducia degli elettori di sinistra. E le piazze romane, impietosamente abbandonate dai cittadini della capitale, la città dove si svolge il test più importante, ne sono una plastica rappresentazione. Il riflesso di una campagna elettorale mai decollata, tenuta artificialmente in vita dalla televisione. Parlano di un disorientamento, doloroso e rabbioso, di un elettorato di sinistra colpito al cuore da un’alleanza di governo che nega ogni aspettativa di cambiamento. Una volta si diceva «piazze piene, urne vuote», secondo il realistico pensiero, rivolto alla maggioranza silenziosa (e dc), del riformista Nenni. Ma se anche le piazze sono vuote, le urne potrebbero conoscere un digiuno clamoroso.

Il responso del voto lo conosceremo domani, ma quel che abbiamo visto a Roma difficilmente potrà essere smentito dall’esito elettorale. Un grande freddo, non solo climatico, è sceso sulla capitale, meravigliosa città umiliata da un piccolo sindaco, divorata da fameliche clientele, soffocata da un debito colossale, offesa dalla violenza, anche razzista e omofoba, contro i suoi cittadini più deboli.

Non è certo una condizione unica di malgoverno, ma, al contrario, una situazione condivisa largamente. Le casse dei nostri comuni sono svuotate dal malaffare organizzato da piccoli satrapi locali o da grandi organizzazioni finanziarie (e Siena ci dirà con quali conseguenze politiche). Ma è nella capitale che si gioca una partita di peso nazionale. L’obiettivo principale è liberarci dall’incubo Alemanno, e subito dopo dare forza alle liste di Sandro Medici per avere nel nuovo consiglio comunale un’esperienza di buona amministrazione del territorio, ricca di risultati concreti, sperimentata ormai da più di dieci anni in un municipio grande quanto una città di provincia. Da troppi anni Roma vive sotto il giogo delle due sponde del Tevere, fra il trono di una politica berlusconiana e l’altare di un conservatorismo clericale. Dobbiamo allentare la morsa.

p.s. Si vota anche a Bologna. Nessun sindaco da eleggere, ma un principio costituzionale da difendere con il referendum contro i finanziamenti pubblici alla scuola privata. E oggi siamo tutti bolognesi.