In Avenue Bourguiba, il viale del centro di Tunisi simbolo della rivoluzione tunisina, sono tornati a risuonare ancora una volta i cori dei manifestanti. Venerdì 18 giugno, il sindacato nazionale dei giornalisti tunisini (Snjt) ha indetto una manifestazione contro l’impunità delle forze di polizia, a sostegno delle proteste che da una settimana agitano i quartieri di periferia di Sidi Hassine, Ettadhamen e Intilaka durante la notte.

A SCATENARE LA COLLERA dei ragazzi dei quartieri marginalizzati della capitale – gli stessi che hanno protestato durante i mesi di gennaio e febbraio 2021 – è la morte di Ahmed Ben Amara, un trentaduenne di Sidi Hassine fermato dalla polizia per un controllo, deceduto in condizioni non chiare in un commissariato del quartiere.

«Abbiamo avuto il nostro George Floyd. Siamo qui per chiedere che i colpevoli vengano puniti come dovrebbe avvenire in ogni paese democratico», spiega Mohamed Yassine Jelassi, presidente del Snjt, in piazza tra i manifestanti.

Una parola ritorna tra le voci dei presenti: impunità. Per Meriem, studentessa in legge di 24 anni, il racconto del malessere delle zone marginalizzate del paese si è fermato a Mohamed Bouazizi, immolatosi a Sidi Bouzid il 17 dicembre 2010 aprendo la stagione delle cosiddette primavere arabe. «Ogni anno abbiamo un nuovo Bouazizi. Gli agenti sono rimasti al loro posto dopo la caduta del regime e questo spiega gli abusi costanti, mentre il malcontento continua a crescere a causa della crisi economica», racconta impugnando un cartellone che recita una frase contro il ministero dell’Interno. Accanto a lei, una ragazza di qualche anno più giovane stringe uno striscione in inglese: «Arrestatemi, ho dei bitcoin nel portafoglio». La settimana scorsa, infatti, uno studente di 17 anni è stato fermato a Monastir per aver comprato dei bitcoin online, prima accusato di riciclaggio, poi rilasciato su decisione del giudice.

MA LO SLOGAN RISUONATO con più frequenza di fronte ai poliziotti in tenuta anti sommossa è «non spogliateci». Fa riferimento a un altro episodio di violenza avvenuto dopo la morte di Ahmed Ben Amara, nello stesso quartiere popolare della capitale lontano dalle strade alberate del centro. Un adolescente di appena 15 anni è stato denudato e picchiato su un marciapiede dal poliziotto in civile che lo stava controllando. I video amatoriali dei passanti che hanno assistito alla scena sono diventati virali nel giro di poche ore, ripresi anche dai principali influencer tunisini su Instagram e Tik Tok. «Nonostante le autorità abbiano formalmente aderito alle riforme della polizia, l’impunità rimane dilagante in Tunisia. La maggior parte delle indagini sui membri delle forze dell’ordine non ha mai superato la fase investigativa», punta il dito Amnesty International Tunisia in un comunicato.

Affinché il governo si assuma la responsabilità di quelle che Yassine Aziza, avvocato per la Lega tunisina dei diritti umani, in piazza definisce «torture di Stato», un gruppo di avvocati membri della società civile ha annunciato di voler far causa al premier Hichem Mechichi.

A far parlare di sé c’è però anche un’altra avvocatessa tunisina: Abir Moussi, leader del Partito desturiano libero, il partito nostalgico dell’era di Ben Ali, primo nei sondaggi al 36%. Circondata dai suoi sostenitori e dalle bandiere rosse e bianche, costantemente ripresa da un’apposita telecamera, Abir Moussi ha tenuto un lungo discorso in Avenue Bourguiba sabato 19 giugno accusando stampa, associazioni e ong di essere «schiavi degli Usa e dell’Unione europea».

COSÌ LA PAROLA SOVRANITÀ ha sostituito impunità nel giro di poche ore. Sulle bandierine distruibuite ai presenti non si legge più «rivoluzione del popolo» ma «rivoluzione dell’illuminazione». La piazza di Abir Moussi non fa riferimento al 2011 perché secondo la leader, da giorni assente in parlamento, questa tappa storica fondamentale per la democratizzazione del paese non è altro che un «colpo di Stato degli islamisti». Eppure anche lei si riappropria del termine thawra – rivoluzione – svuotandolo del suo significato. Così fanno i suoi sostenitori: «Abir Moussi è la nostra rivoluzione. Ci restituirà un paese sovrano e capace di governarsi», spiega Imed, 50 anni e due figli laureati all’estero. Imed sostiene di non aver mai appoggiato Ben Ali in passato, ma non per questo rinuncerà a votare Moussi, «un’oratrice fantastica».

Stesso posto, ma due piazze opposte i cui slogan si rispondono l’un l’altro: ad accomunarle c’è solo la delusione delle promesse del 2011.