Re Artù e i cavalieri della tavola rotonda, Lancillotto e Ginevra, Tristano e Isotta sono da sempre i romanzi, in prosa e in verso, più conosciuti e più letti della letteratura europea occidentale. I sacri testi su cui impariamo, fin dalla scuola elementare, a riconoscere la differenza tra fabula e intreccio, ma anche i miti dell’amore e dell’avventura che non si cancelleranno più nella nostra memoria di bambini divenuti adulti. Ricostruire le fasi archetipiche di queste vicende, dunque, costituisce un modo per risalire alle radici dello spirito europeo, di quell’Europa romanza che, abbandonato l’algido splendore della letteratura classica, di Virgilio e di Cicerone, si affidava prima all’opera sapiente degli scriptoria monastici e delle scuole cattedrali per approdare poi, gradatamente, alle corti di Francia, Provenza e Marca impadronendosene grazie alle Troianorum Romanorumque gesta e alle Arturi regis ambages pulcherrimae di dantesca memoria. Quelle storie e quelle vicende, in originale o per il tramite di precoci volgarizzamenti e riadattamenti, segneranno in modo indelebile le generazioni successive, costituendo un tratto imprescindibile per la comprensione della letteratura moderna e contemporanea, come ha insegnato a tutti noi Pio Rajna nel celebre saggio su Le fonti dell’Orlando furioso.
Soggiogato dalla regina di Scozia

Tra le ambages pulcherrimae destinate a impegnare maggiormente le energie dei filologi si colloca senz’altro la prima fase della leggenda arturiana, il cosiddetto romanzo di Meliadus, padre di Tristano, che narra le gesta coraggiose e le peripezie amorose precedenti alle storie di Artù. Le avventure di Meliadus, soggiogato dall’amore per la regina di Scozia (per cui dichiara, potentemente, «tenuz sui comme le cerf a cui sont trenchié li nerf» ‘sono prigioniero come il cervo sgarrettato’), si intrecciano con quelle di un altro valoroso cavaliere: Guiron le Curtois. È una matassa non sempre facile da sciogliere, quella di Meliadus e di Guiron, perché su di essa si è depositata, nel corso dei secoli, l’opera di copisti e rimaneggiatori, alterando la fisionomia originaria – se mai una ce n’è stata – e sfigurandone il testo con continui interventi di correzione e riscrittura. Per provare a mettere ordine, qualche hanno fa è nato il «Gruppo Guiron», un gruppo di studio internazionale che vede impegnate la Fondazione Ezio Franceschini di Firenze e le Università di Zurigo e di Liegi, e che si sta dedicando all’analisi e alla ricostruzione della tradizione manoscritta di questi testi. Il primo, importante frutto è un bel volume di Nicola Morato, uscito qualche anno fa (Il ciclo di «Guiron le Courtois», Firenze, Sismel, 2010), che spiega come alla base di questa porzione del ciclo esistano in realtà tre narrazioni distinte: il Roman de Meliadus, il Roman de Guiron e un terzo frammento da riconnettere a quest’ultimo.
Tra i testimoni più autorevoli del ciclo, e probabilmente il più antico, c’era il cosiddetto manoscritto Ferrel 5, latore unico della «version longue» del romanzo, cosiddetta perché nell’ultima sezione ospita, oltre alla leggenda canonica, un supplemento di narrazione che si lega al Roman de Guiron. Ho volutamente usato un tempo al passato perché le vicende rocambolesche di questo manoscritto stavano per condurlo all’ennesimo cambio di segnatura e, forse, alla definitiva scomparsa. Ricostruendone puntualmente la storia, Barbara Wahlen (L’écriture à rebours. Le Roman de Meliadus du XIIIe au XVIIe siècle, Genève, Droz, 2010), spiega che il prezioso codice appartenne già alla biblioteca del celeberrimo, quanto tignoso collezionista sir Thomas Phillips. All’asta da Sotheby’s nel 1966, finì nelle mani del collezionista Peter Ludwig che, dopo un prolungato deposito presso lo Schnütgen Museum di Colonia, nel 1983 lo vendette al Getty Museum di Malibù. Il Getty lo rimise a sua volta sul mercato nel 1997, per finanziare nuovi acquisti. Ne approfittarono i collezionisti americani Paul ed Elizabeth J. Ferrel che l’anno successivo lo acquistarono dal libraio Bruce Ferrini per una base d’asta di 400.000 dollari. A questo punto, grazie alla lungimiranza dei proprietari, il manoscritto venne reso disponibile alla consultazione degli studiosi presso la Parker Library del Corpus Christi College di Cambridge.
Questo fino allo scorso anno, quando i Ferrel decisero di rivenderlo: nessuna possibilità di riprodurlo, pena il crollo del valore di mercato. Il manoscritto rischiava di inabissarsi nelle profondità di qualche inespugnabile caveau sottraendo agli studiosi un testimone decisivo per la ricostruzione del testo. È a questo punto che la Fondazione Franceschini ha lanciato una campagna di sottoscrizioni volontarie per tentare di acquistare il manoscritto. La generosità dei donatori e la disponibilità dei proprietari a che il prezioso testimone rimanesse a disposizione dei filologi, ha consentito di concludere l’acquisto e il Meliadus è così diventato FEF2, il secondo ospite in ordine d’arrivo sul palchetto dei codici della Fondazione.
Un’ipotesi intrigante
Ora che è possibile osservarlo più da vicino il codice sembra nascondere un pedigree che promette ulteriori e importanti sorprese. Con una consistenza di 288 fogli di pergamena, scritto in Italia settentrionale nella prima metà del Trecento, forse nel 1320, questo testimone ricorda da vicino un analogo Meliadus inventariato nel 1407 tra i codici della biblioteca di Francesco I Gonzaga: la scheda dell’inventario registra in questo caso una consistenza di 285 fogli, ma il diligente notaio annotò anche incipit e explicit di quel Meliadus, che coincidono perfettamente con quelli di FEF2. Di più, nella tradizione manoscritta esplorata dai filologi non sono emersi finora concorrenti che possano vantare una costituzione materiale simile a FEF2, che diventa dunque il principale candidato per l’identificazione col codice gonzaghesco. Ci si può spingere ancora più avanti, esaminando la miniatura sulla prima carta. Benché sbiadito lo stemma sembra inquadrare un dragone, che potrebbe benissimo essere anche un grifone rampante. Tra i fogliami evaniti qualcuno intravede quello che pare un ramo curvato, carico forse di piccoli grani di pepe. Potrebbe trattarsi dello stemma della famiglia Peverelli, fiorentina d’origine ma travasatasi presto al nord, tra Milano e Verona dove, presso il locale Archivio di Stato, se ne conserva ancora un non esiguo fondo documentario (ma i documenti partono dal XV secolo). I contatti tra Mantova e Verona sono noti e antichi, e dunque non dovrebbe sorprendere la presenza del codice nella biblioteca dei Gonzaga. Ma ancora più significativo sarebbe il fatto che nella Verona di primo Trecento, la Verona di Cangrande della Scala e di Dante – che a lungo e a più riprese aveva soggiornato in città e che ancora nel gennaio del 1320 si trovava in riva all’Adige – si potessero commissionare e si leggessero manoscritti di questo pregio: sarebbe un acquisto rilevante, e andrà valutato con molta prudenza, ma potrebbe costringere a rivedere ulteriormente la valutazione, spesso contestata, sul livello culturale della corte scaligera di primo Trecento e degli ambienti cittadini che vi ruotavano attorno.