Chiunque si occupi con metodo e passione dei fatti letterari come si svolgono oggi nel mondo occidentale (e in particolare in Italia) percepisce la presenza e l’azione di un’effettiva rivoluzione antropologica, che – con numerose diramazioni e conseguenze, non tutte negative – viene anche ripristinando antichi manicheismi di cui non si avvertiva la necessità. Si pensi a quello tutto «editoriale» che oppone narrativa e poesia: come e dove collocare, tuttavia, notevolissimi e recenti romanzi in versi come quelli di Massini, Targhetta, Fiori? Ma poi, ancora, ecco composizione versus ricezione (ove il rapporto quantitativo fra chi scrive e chi legge è inversamente proporzionale all’ordine che parrebbe naturale); giovani versus vecchi; oralità vs scrittura.

IN VANTAGGIO, con distanze sempre più spiccate, sembrano i termini sciorinati per primi, mentre s’indeboliscono fin quasi ad annullarsi paradigmi tutti letterari (e artistici) quali storia, memoria, tradizione, tecnica. Serve a poco sottolineare che, al contrario, le scritture più consapevoli, mature, aperte a una vera sperimentazione e dunque plurali rifiutano in partenza dicotomie simili. I risultati però sono che troppa scrittura e troppa autobiografia annacquano e talora cancellano il piacere della lettura; che la poesia sta abbandonando la sua meta «naturale» del libro fatto ad arte a favore di un’attività performativa e spettacolare a dir poco frammentaria e istantanea; che la critica gode di spazi di volta in volta più ristretti e condizionati, oltre a venir quasi sempre tacciata di accademismo; e che i romanzi confezionati a tavolino si aggrappano a una lingua povera e piatta.
Non c’è dubbio che, fatti salvi alcuni (tra cui Benati, Cornia, Trevisan, Claudio Piersanti, Vinci e pochissimi altri) i narratori più linguisticamente vivi bisogna andare a cercarseli altrove, fino ai territori rischiosi delle scritture di genere e sottogenere: Guccini, Varesi, Robecchi. Oppure in un passato quasi rimosso: Savinio, Parise, Landolfi, Delfini, D’Arzo, Meneghello, insieme con gli infiniti Gadda, Morante, Manganelli.
Il libro recente del bergamasco Gabrio Vitali (Odissei senza nòstos, Moretti & Vitali, pp. 224, euro 15) s’impegna con vigore, passione e indubbi risultati critici a rimettere il pendolo all’ora giusta. In primo luogo, nel suo viaggio ricco di stimoli e di erudizione militante fra le polarità interdipendenti dell’esodo e del nòstos, s’impegna a trasmettere il senso, la profondità e soprattutto la tecnica di una serie di esercizi ricettivi davvero rimarchevoli e tutti orientati a irradiare un «come si legge» che pareva smarrito nei meandri delle mode e dei subdoli processi di distrazione e di massificazione di cui siamo vittime più o meno inconsapevoli.

COSÌ, quello di Vitali è un «come si legge» che non dà mai per scontata alcuna operazione cognitiva, indirizzato a interlocutori in carne e ossa, studenti, in particolare, di ogni ordine e grado, ma anche semplici lettori che hanno voglia di orientarsi e districarsi nella selva oscura della letteratura d’oggidì. Non a caso, il termine da cui l’autore prende le mosse per schizzare all’inizio il proprio autoritratto è quello, preziosissimo e oggi purtroppo negletto, di insegnante. Tutto muove di qui, dalle molte riforme promesse e poi tradite o mancate dell’istruzione primaria, secondaria e universitaria, entro la quale – in primo luogo – non sono affatto chiare le opzioni metodologiche e operative che gravitano attorno al sapere letterario, coinvolgendone purtroppo una necessità sempre più dubbia. La poesia a scuola, per esempio, ha come proprio punto d’arrivo due autori nati addirittura due secoli or sono come il primo Montale e l’Ungaretti dell’Allegria: gli autori e le autrici del ‘900, spessissimo di stoffa molto fine e d’indubitabile attualità, vengono rimossi come se non avessero scritto un solo verso.
Gabrio Vitali non è stato solo insegnante (per anni a Bratislava), ma è anche operatore culturale in senso lato, organizzatore di eventi e premi prestigiosi (il S. Pellegrino ma non solo), oltre che promotore editoriale di qualità. Nel suo libro riesce a trasfondere tutta la passione e tutta la competenza che lo hanno spinto a indossare questi abiti diversi di attivista letterario, annullando senza mai cadere nelle tentazioni dell’astrazione metodologica la maggior parte delle opposizioni fittizie cui s’è accennato in precedenza.
Il suo ragionamento e la sua applicazione prendono anzitutto le mosse da una rivalutazione tutt’altro che scontata dell’epica, trasfondendo nell’arco di una lunga e talvolta lunghissima durata gli archetipi e i paradigmi di una vicenda letteraria che è mossa contemporaneamente dalla progressione lineare dei tempi (anche nel senso delle diverse evoluzioni linguistiche delle singole tradizioni) e dalla circolarità di un’esperienza che serba insieme i crismi dell’origine e della fine.

QUESTA COGNIZIONE consente a Vitali di movimentare il suo discorso critico dalla figura «romanzesca» dell’Odisseo omerico fino alle emanazioni tutt’altro che scontate di una riscrittura prima romanza (attraverso la riflessione ampia e acuta dedicata a Dante) e poi contemporanea, attraverso la lunga e motivatissima sosta su una figura del nostro Novecento narrativo tutta da riscoprire e rivalutare come quella di Luigi Meneghello, sondato tanto nella dimensione narrativa dei Piccoli maestri e del più noto Libera nos a Malo, quanto in quella più segreta di un libro «terribile e stupendo sul dopoguerra» come Bau-sète!
Odissei senza nòstos s’impernia in particolare sulle originalissime, perché vissute prima che scritte, respirate prima che pensate, pagine su Dante: e questo è anche un atto di grande coraggio critico, dal momento che – quando si ripensa a Dante – si è come schiacciati dall’impressione che lui abbia già detto tutto e che tutto sia già stato detto su di lui: impressione sbagliatissima, soprattutto sul piano didattico.

DANTE deve ancora dire e trasmettere tanto a noi e alle generazioni della nostra più giovani. E Vitali è bravo a far proprio tale assunto, concentrandosi da una parte sulla soglia topica del XXVIII canto del Purgatorio (quello di Matelda); e dall’altra sulla scommessa vertiginosa dello «scrivere la luce» e dunque del dare conto della relazione antropologica «fra la parola che nomina il mondo e il gesto che nel mondo agisce».
Questo può essere considerato anche il motto attorno al quale gira l’insieme concertato del suo libro, concluso da un vivissimo e paradossale «antefatto extra-letterario», che coincide con un ricordo di scuola rievocato con empatia davvero commovente e insieme con un’acutezza ermeneutica tutta sottintesa perché in apparenza concentrata sulla distinzione fra domande vere e domande retoriche.
Ma è proprio in queste righe stampate in corsivo che il libro di Gabrio Vitali rivela la sua necessità e la sua umanità di parola viva che – come in tutta la letteratura più vera – proietta la fine nell’inizio, svelando un intento latamente profetico, accanto alla capacità peculiare di riportare il pensiero e l’espressione della letteratura a quel «parlar materno» che infine accomuna chi scrive e chi legge con amore.