Fadi Arouri si è dannato l’anima in queste settimane. È stato in prima fila il 15 ottobre quando a Ramallah sono scesi in strada oltre 10mila lavoratori palestinesi. E continua a prendere parte a tutte le proteste popolari tenendosi in contatto con gli attivisti a Hebron, Betlemme e Nablus. Ieri era ancora lì, ad animare un nuovo raduno a Ramallah assieme a compagni di lotta ed amici. «Purtroppo i nostri sforzi non hanno raggiunto l’obiettivo di congelare o modificare profondamente la riforma del sistema di previdenza sociale prima che entrasse in vigore il 1 novembre. Ma non ci arrendiamo, continueremo a combattere un progetto che a parole tutela lavoratori e pensionati e che in realtà rischia di provocare povertà diffusa nei prossimi anni», ci dice Arouri rappresentando le preoccupazioni di decine di migliaia di lavoratori dipendenti e liberi professionisti. «Il primo ministro Rami Hamdallah – aggiunge – aveva garantito lo spazio per una trattativa vera sui punti più contestati ma la riforma è stata introdotta un testo simile a quello originario». Le proteste perciò vanno avanti contro il ministro del lavoro Mamoun Abu Shahla, che è anche presidente del neonato Istituto per la Previdenza Sociale, ed includono oltre a sindacati, ordini professionali e forze politiche di sinistra anche porzioni significative del partito Fatah, spina dorsale dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).

La legge non è nuova, la prima bozza è del 2016. Poi è stata modificata. Il deputato Bassam Salhi, un ex comunista, la giudica equilibrata: «Abbiamo ottenuto la riduzione al 7% (dal 7,5%) delle trattenute sulla busta paga dei lavoratori e l’aumento del contributo dei datori di lavoro al 9% (dall’8,5%), non si poteva fare di più». Un altro sostenitore della legge, Wisam Rafidi, professore di scienze sociali dell’Università di Betlemme, ha scritto sul sito di Watan Tv «che dietro le proteste ci sono i proprietari di aziende che vogliono tutelare i loro interessi e non i dipendenti».

Chi protesta va oltre numeri e statistiche, guarda alla situazione politica e alla perenne incertezza che avvolge la vita di ogni palestinese. E si pone interrogativi seri sul destino dei fondi che saranno raccolti dall’Istituto per la Previdenza Sociale. «Il governo si comporta come se ci fosse lo Stato di Palestina – protesta Omar Misk, commerciante – ma noi non abbiamo uno Stato, siamo sotto occupazione israeliana. Oggi l’Anp esiste ma chi ci garantisce che esisterà tra due anni o anche solo tra sei mesi. L’Anp crolla in un attimo se solo Israele vuole. E i nostri contributi che fine faranno? Temo di versare inutilmente soldi di cui ho bisogno per vivere». Pochi credono che imprese e aziende palestinesi, deboli (e in buona parte indebitate) come l’intero sistema economico penalizzato dall’occupazione, saranno in grado di versare il Tfr ai loro dipendenti. Altri avvertono che, in ogni caso, le pensioni saranno da fame. «Mi hanno spiegato che l’assegno che riceverò una volta in pensione corrisponderà appena al 30%, massimo al 40% dell’ultimo stipendio. Come potrò vivere, qui la vita costa e costerà sempre di più», si lamenta Bilal Barakat, un insegnante.

Per i più critici la riforma sarebbe «una farsa». L’Anp, dicono, non pensa ai diritti dei lavoratori bensì a raccogliere attraverso l’Istituto per la Previdenza Sociale, la liquidità necessaria per coprire il suo deficit e il mancato arrivo delle donazioni Usa, per centinaia di milioni di dollari, tagliate nei mesi scorsi dall’Amministrazione Trump. L’Anp, in sostanza, vorrebbe mettere le mani sui contributi versati in Israele, fin dagli anni Settanta, dai manovali palestinesi dei Territori occupati. Fondi che Israele, rispettando gli Accordi di Parigi del 1994, potrebbe versare in tempi brevi. L’entità non si conosce. Alcune fonti parlano di 10 miliardi di shekel (2,7 miliardi di dollari), altre di 50 miliardi di shekel (13,5 miliardi di dollari). Fadi Arouri ci riferisce la domanda che si pongono i palestinesi che partecipano alle proteste in corso: «Questi miliardi andranno a consolidare il fondo per le pensioni o saranno dirottati in altre direzioni?»