«Il manifesto raffigura tre pecore bianche su un placido praticello rosso con una croce bianca. Una delle pecore bianche, sorridendo, caccia da questo spazio, a calcioni, una pecora nera. Sul manifesto troneggia la scritta creare sicurezza. Mi viene in mente allora che ’pecora nera’ era una delle espressioni preferite di mio padre, che lavorava per l’esercito regolare del Bantuland».
È un gioco costante di paradossi quello che mette in scena Max Lobe, scrittore 31enne nato in Camerun e da tempo cittadino di Ginevra, in La trinità bantu (66thand2nd, pp. 181, euro 15) che affronta con ironia e delicatezza temi drammatici come la malattia, l’emarginazione e, soprattutto, il razzismo, spiazzando di continuo il lettore grazie a una lingua inventiva e al capovolgimento di ogni cliché.
Il protagonista, Mwána, giovane africano arrivato nella Confederazione alla ricerca di un lavoro adeguato ai suoi studi dovrà barcamenarsi tra occupazioni saltuarie, vendere porta a porta dei prodotti sbiancanti a delle clienti nere o fare uno stage in una sgangherata ong antirazzista, mentre sua madre affronta un ciclo di chemioterapia dagli esiti incerti e le cose con Ruedi, il «piccolo grigionese» con cui è sposato, non vanno troppo bene. Sullo sfondo, la campagna contro le «pecore nere» lanciata dalla destra razzista che a lui che considera «elvetici» e «bantu» più simili di quanto siano disposti ad ammettere, appare insensata più che pericolosa.
Lobe sarà ospite oggi del Book Pride di Genova (ore 15, Palazzo Ducale).

In «La Trinità bantu» affronta quasi con ironia temi drammatici e inquietanti. Da cosa trae origine tale approccio?
In realtà per me è il modo più naturale di affrontare il dolore e le difficoltà. Sono nato e cresciuto in Camerun dove, a differenza di quanto accade in Europa, si pensa che non serva a nulla lamentarsi e piangere di fronte ai problemi. È molto meglio ridere dei malanni come della povertà, prendersi per così dire gioco di ciò che ci fa soffrire e per questa via continuare a vivere, a dare un senso all’esistenza. L’unico vero modo per farsi attraversare dai guai e sopravvivere a essi.

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Ad accompagnare le vicende del romanzo c’è la campagna razzista lanciata quasi dieci anni fa dall’Unione democratica di centro, il partito xenofobo che nel frattempo è diventata la prima forza politica della confederazione. Un evento che ha liberato il discorso razzista nel paese?
In realtà, all’epoca «il manifesto della pecora nera» ha creato soprattutto scompiglio e aperto una grande discussione nella società svizzera. Ne discutevano tutti e ovunque. Ricordo ancora che perfino a una lezione di matematica, che seguivo all’epoca all’Università di Lugano, ci ritrovammo a parlare di questo argomento. Per la prima volta, un discorso del genere si era insinuato in profondità nella vita di ciascuno di noi. Ed è questo l’aspetto della vicenda che mi ha colpito di più. Quanto al razzismo, è difficile dire se oggi la Svizzera risenta di più di tutto questo, certo ci sono molti razzisti, ma come accade un po’ ovunque ormai. Non credo che un manifesto contro «le pecore nere» troverebbe pochi sostenitori in Italia.

Il giorno della festa nazionale, il protagonista osserva come dalle finestre sventolino le bandiere svizzere accanto a quelle di paesi come Italia, Portogallo, Spagna, Albania, Kosovo. Mancano però quelle degli immigrati dal sud del mondo, africani o dell’America Latina. Perché?
È quello che si chiede Mwána che nota come non ci siano bandiere del Bantuland, come chiamo l’Africa nel libro. Forse questo accade perché le persone non si sentono poi così orgogliose di arrivare da paesi poco democratici e ancor meno liberi. O forse perché conoscono quel certo sguardo di superiorità che è riservato loro quando all’aeroporto di Ginevra tirano fuori i loro passaporti africani, lo sguardo di chi dice «io sono europeo e tu?». È qualcosa che è capitato anche a me quando sono arrivato in Svizzera e che mi viene ricordato ogni volta che degli agenti per strada chiedono per primo a me di mostrargli i documenti.

Mwána reagisce a questo clima ricorrendo a delle metafore culinarie africane. Quando deve ripulire dagli insulti razzisti il forum della ong per cui lavora, spiega «ho trascorso la giornata a setacciare i messaggi come farina di manioca». Il Bantuland prende forma tra le montagne svizzere?
Perché no? Forse la Svizzera è africana senza saperlo. Tante cose che vedo intorno a me da quando vivo qui mi ricordano l’Africa. Penso al modo in cui si narrano le storie ai bambini, storie che assomigliano a quelle che mi raccontavano da piccolo in Camerun. O, ancora, a certe tradizioni legate alla medicina popolare, alle guaritrici che in montagna utilizzano erbe e formule tramandate da una generazione all’altra. Certo non a Ginevra, ma nelle valli svizzere batte ancora un cuore tradizionale, qualcosa che nel mondo occidentale si è perso ma che è ancora vivo nei paesi africani. Per questo scrivo che elveti e bantu sono perlomeno cugini.

Tra i suoi riferimenti letterari c’è Charles Ferdinand Ramuz, uno scrittore di Losanna attivo all’inizio del Novecento che ha esplorato il mondo contadino locale. Descriveva una Svizzera africana ante litteram?
Di Ramuz, oltre al modo in cui ha narrato il rapporto delle persone con la terra, la vita delle piccole comunità e il modo in cui le voci e le dicerie si propagano in tali contesti, mi ha sempre colpito la lingua, il suo modo di giocare con il francese che è un po’ quello che cerco di fare con i miei romanzi. Ho scoperto i suoi libri tardi, grazie a un critico letterario che me ne consigliò la lettura e devo dire che se non avessi saputo che veniva dal cantone di Vaud sarei stato portato a credere che fosse un africano. Il francese che si parla in Svizzera non è ovviamente quello di Parigi, ma credevo che solo gli autori africani o quelli delle isole francofone dei Caraibi facessero un uso così particolare, creativo di questa lingua. Invece, leggendo Ramuz ho capito che anche uno svizzero lo aveva fatto.