Oguma Eiji insegna sociologia all’Università Keio di Tokyo. Sociologo e storico, si è occupato dell’identità giapponese, di etnicità e nazionalismo. Ha realizzato il documentario Tell the Prime Minister sul movimento anti nucleare giapponese dopo Fukushima.

Lei sostiene che in Giappone vi siano «due nazioni», una organizzata dall’Ldp che raccoglie il 30% degli elettori e una disorganizzata, e che il film sia fatto per scuotere questo 70%. Si tratta di un carattere storico della società o è emerso solo di recente con queste proteste?

Il Giappone può essere descritto come una società di containers. La società giapponese è fatta di tante piccole comunità, locali, familiari, d’impresa, che nel corso della modernizzazione sono diventate disfunzionali. Il paese era riuscito a riorganizzarsi negli anni ’60 e ’70, quando era il considerato il «numero 1» e godeva di una posizione industriale simile a quella della Cina di oggi, ma negli ultimi 15 o 20 anni il Giappone ha perso la sua posizione e di conseguenza l’isolamento delle persone e l’instabilità del lavoro sono aumentate.

In politica, nella società, nei ruoli di comando di questi containers lei vede un ricambio generazionale?

Il sistema politico giapponese e i mezzi di comunicazione di massa si sono adattati alla società dei containers. Guardo al sistema politico, durante la campagna elettorale ogni container appoggia i candidati del proprio partito nella propria circoscrizione, i medici, gli agricoltori e lo Shintoismo sono organizzati dal Partito liberaldemocratico, ora al governo, ma ora non raccolgono più del 30% dei voti totali. I sindacati erano i containers del Partito socialista, ma dagli anni ’90 questi sono in declino e ora il 70% degli elettori è atomizzato. Questi possono concentrare il loro voto sia da una parte che dall’altra. Nel 2009 scelsero il Partito democratico (Dpj) nella speranza delle riforme, ma non rappresentano una base solida e dopo il 2012 non sono tornate all’Ldp, semplicemente si sono astenuti.

Come è stata la sua esperienza di partecipante al movimento anti nucleare? Lei era presente alle trattative con il primo ministro, come è stato l’incontro con il potere?

Ho preso parte al movimento dopo l’incidente di Fukushima come un comune partecipante e ho incontrato molti attivisti. I manifestanti di fronte all’ufficio del premier cercavano un modo di negoziare con l’amministrazione e così ho stabilito il contatto tra loro e il primo ministro Kan e alcuni politici del Dpj. Poi ho partecipato all’incontro in qualità di mediatore, ma non ho detto nulla, l’amministrazione mi chiese di partecipare.

L’amministrazione le chiese di partecipare?

Sì. Gli attivisti erano confusi e si chiedevano perché io li mettessi in contatto con i politici, ma avevo stabilito un rapporto di fiducia con loro, perché avevo partecipato come semplice dimostrante e loro non sapevano che fossi professore. Conoscevo Kan perché avevo tenuto una lezione presso il suo ufficio alla Dieta.

Dov’è ora il movimento, stanno ancora protestando?

La Metropolitan Coalition against Nukes continua a organizzare manifestazioni ogni venerdì di fronte all’ufficio del premier. Hanno continuato per anni, ora saranno un migliaio.

Organizzeranno qualcosa per l’anniversario?

Sì, credo. Forse una grande manifestazione.

Lei ha parlato della rottura del tabù della protesta. Ha qualcosa a che fare con il concetto di «seken» (sentimento della comunità)?

Chi agisce politicamente – non solo in Giappone – ha bisogno di legittimazione, che può dargli coraggio e legalità: per la società occidentale potrebbe essere dio o la filosofia, ma per i giapponesi che non hanno un unico dio la legittimazione viene dalla società. La stabilità della società dei containers è l’origine della legittimazione. Ora, invece, le comunità d’appartenenza non offrono più nulla, così alcuni cercano un’appartenenza in rete o nei mass media, ma è molto instabile, non forma una comunità solida.

Ha notato differenze rispetto alle manifestazioni anti nucleari degli anni ottanta dopo Chernobyl?

Sì, all’epoca ci furono manifestazioni alle quali partecipavano soprattutto casalinghe, a parte qualcuno dei sindacati e qualcuno del movimento pacifista, ma queste avevano sposato uomini con un buon salario. Dopo Fukushima, invece, a causa della situazione economica si sono mobilitati soprattutto lavoratori relativamente ben educati, ma con impieghi precari come illustratori, informatici, artisti, un attivista era un professore a tempo parziale.

Nel suo recente documentario ha mostrato come la rete possa essere non solo un veicolo per i movimenti «hate speech», ma possa contribuire a formare un movimento positivo. Vede un futuro per l’impegno sociale in rete in Giappone o è stato solo un episodio sporadico?

 

11INCHIESTA BLEDAR HASKO fukus fukushima
Ogumi Eiji

 

In una società atomizzata e in preda all’ansia grandi dimostrazioni possono accadere facilmente. Questa è la prima ragione. Credo che Occupy Wall Street sia nata dalla stessa situazione, la partecipazione alle elezioni americane del 2014 è stata molto bassa, il 36 o 37%. Vede, Occupy Wall Street ha avuto grande attenzione, ma nessun effetto sulle elezioni. La seconda ragione è la polarizzazione. Molti cercano un messia o un nemico, possono aver trovato un messia in Koizuni o nel Dpj e aver votato temporaneamente per loro, ma cercheranno un altro messia e così via. È una situazione che può essere molto instabile e pericolosa. Per questo persone come me cercano una risposta nella crescita dei movimenti. Dal 2013 ho osservato molti attivisti dei SEALDs (Student Emergency Action for Liberal Democracy) all’inizio erano molto immaturi, ma sono sorpreso da quanto siano cresciuti in due anni di manifestazioni. E altri attivisti delle dimostrazioni del 2011 e del 2012 sono cresciuti nel movimento.

In cosa sono cresciuti?

Nell’abilità di creare e diffondere informazione, nella capacità di organizzare le persone e nel negoziare con i politici e i media. Li ho visti crescere in consapevolezza, conoscenza e soprattutto in dignità e volontà di studiare e agire. Questi gruppi non sono organizzati, partecipano ad attività locali nel nome dei SEALDs. Dopo il gruppo di Tokyo si sono formati altri gruppi a Osaka, a Kyoto, nel Kansai, ma solo in un secondo momento hanno cercato di stabilire relazioni tra loro. Si tratta solo di qualche centinaia di persone, ma sono un simbolo dell’attivismo delle giovani generazioni.

Possono essere descritti come leader del movimento?

Hanno attirato l’attenzione dei media l’estate scorsa perché questi si sono finalmente resi conto della preoccupazione per il futuro del Giappone e vi hanno scorto un simbolo, la speranza di catalizzare un grande movimento. Io credo, però, che solo alcuni membri siano cresciuti nel corso delle negoziazioni e che la maggior parte non sia molto sofisticata.

Ma la mobilitazione contro la modifica dell’articolo 9 della costituzione è stata molto vasta.

Il movimento contro la legge sulle forze di autodifesa mi ha sorpreso per popolarità, ma non credo sia stato solo a causa del sentimento pacifista dei giapponesi. Ho osservato molti manifestanti e attivisti e ho trovato una forte preoccupazione per il futuro. Questa credo sia la vera causa.

Lei ha parlato dell’instabilità nella vita di queste persone, cosa ha concluso nelle sue ricerche?

Dopo il 2011 mi sono occupato del movimento anti nucleare a Tokyo e ho ricercato le aspirazioni e l’attività dei partecipanti e i caratteri dei gruppi che si mobilitano, le loro abitudini di voto e le loro motivazioni. Loro non sono consci delle reali cause del movimento. Possono anche sostenere che manifestino contro l’uso dell’energia atomica o la riforma dell’articolo 9 della Costituzione, ma se guarda più attentamente alla loro situazione economica questa è molto instabile. Perfino i professori partecipano alle proteste. Negli ultimi 15 anni il governo ha tagliato i fondi all’università nel settore umanistico e delle scienze sociali. Le priotità decise dal ministro dell’educazione sono tecnologia e economia. Questo ha portato molti professori a protestare con il movimento pacifista.

Allora questi gruppi si stanno unendo in unico fronte anti Ldp?

Non credo. Il movimento deve essere organizzato attorno a singole questioni, troppi slogan diversi dividono i partecipanti. Ai professori non interessa dei lavoratori precari o dei giovani e a questi non interessa dei tagli. Si uniscono solo attorno a singole questioni, come la Costituzione.

Ci saranno altre proteste contro il Partenariato Transpacifico?

Credo di no. Gli agricoltori proveranno ad influenzare l’Ldp, magari insceneranno qualche protesta di rito, ma l’Ldp sa che si tratta solo di facciata. E a Tokyo non c’è simpatia per le associazioni degli agricoltori.

Lei ha studiato l’immagine che i giapponesi hanno di sé nella storia, pensa che dopo il declino degli anni ’90 ci sia stato un cambiamento del modo in cui i giapponesi si vedono?

Con il declino dello status del Giappone sono cresciuti i movimenti populisti. Tra il 2013 e il 2014 si è imposto il movimento hate speech contro i coreani. Ci furono anche marcie attraverso Corea Town a Tokyo e questa è solo la punta dell’iceberg. Queste persone versano in uno stato d’ansia per il loro futuro. Cercano un nemico. Purtroppo è una storia banale, ma si possono trovare molti libri anti cinesi e anti coreani nelle librerie. In questo contesto la società giapponese tende a essere descritta come una nazione omogenea e il discorso nazionalista non si ferma solo all’origine della nazione, ma riguarda anche il revisionismo della seconda guerra mondiale. Si tratta di una tendenza globale che mostra l’emergere della disfunzionalità progressiva dell’ordine mondiale della fine del ventesimo secolo. C’è chi cerca inconsciamente sistemi alternativi perché in preda ai dubbi e all’ansietà, alcuni si attaccano all’identità nazionale, alle origini e alle memorie di guerra.

E l’altra metà della società giapponese?

Il nazionalismo si diffonde non solo nella società atomizzata, ma anche nelle persone che erano organizzate nei containers, perché questi sono infastiditi dall’incertezza. Queste persone ora invecchiano e si atomizzano. In effetti sentono che perdono potere.