Quella che prese vita in Carnia e in Alto Friuli fu la repubblica partigiana più grande e popolosa d’Italia: una superficie pari a 2.580 chilometri quadrati, con 38 comuni, 160 paesi completamente liberati e un totale di circa 90.000 abitanti. Proprio tra quelle montagne, in un territorio così ampio da amministrare, le donne assunsero un ruolo di rilievo e per la prima volta in Italia, nel 1944, ebbero la possibilità di votare.

«VOTARONO PERÒ NON in quanto donne – spiega Monica Emmanuelli, direttrice dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione – ma in qualità di capofamiglia. Quando si organizzò l’amministrazione delle zone libere, si usufruì anche di qualche precedente esperienza di gestione della comunità: si recuperò la pratica elettiva adottata nelle latterie sociali cooperative. Molte donne ricoprivano le funzioni di capofamiglia per cause di forza maggiore, perché gli uomini spesso erano caduti in guerra o erano stati deportati».

NELLA GIUNTA DI GOVERNO «le organizzazioni di massa come i Gruppi di difesa della donna avevano un voto deliberativo su questioni attinenti alle loro specificità» continua Emmanuelli. In Carnia e in diverse parti del Friuli, le donne si occuparono della distribuzione della stampa clandestina, trasportandola al di fuori dalla zona liberata, in bicicletta o a piedi. Le friulane ebbero un ruolo strategico anche quando i nazisti bloccarono le vie di comunicazione con la pianura, impedendo così l’arrivo di viveri e di medicinali nei territori controllati dai partigiani. «In quel caso si decise di non arrivare a nessun compromesso con i tedeschi, nemmeno con lo scambio di legna e di cibo – prosegue la direttrice dell’Ifsml – si organizzò quindi un servizio di approvvigionamento per reperire generi alimentari in pianura e portarli nella Zona Libera».

E così furono soprattutto le donne, divise in gruppi di 20 o 30 unità, a recuperare le derrate per poi fare ritorno a piedi durante la notte, reggendo sulle spalle fino a 50 kg di grano che veniva distribuito alle famiglie. «Solo a quel punto, nei paesi, venivano usati dei camioncini. In 15 giorni si dice abbiano trasportato da sole circa 5000 quintali di grano».

COME NEL RESTO D’ITALIA, in Carnia molte donne parteciparono alla lotta vera e propria come infermiere, staffette e partigiane combattenti. Le giovani nascondevano comunicazioni dei comandi ma anche armi, munizioni e materiale di propaganda. Se catturate, venivano uccise e torturate alla pari degli uomini e spesso erano vittime di violenze sessuali. Nella Resistenza italiana si contano circa 35.000 donne coinvolte, ma probabilmente furono di più. «Anche a livello regionale è molto difficile fare un conteggio preciso – aggiunge la storica –. Dopo la Liberazione tante donne non hanno rivendicato il proprio ruolo, alcune lo hanno sminuito considerandolo qualcosa che semplicemente andava fatto e in poche richiesero la qualifica di partigiana».

TRA LE VALOROSE COMBATTENTI della Zona Libera, spicca la medaglia d’argento al valor militare Jole De Cillia, morta a Tramonti di Sotto con le armi in mano durante uno scontro contro il Battaglione Valanga della X Mas. Tra le medaglie d’oro al valor militare che operarono nella zona friulana ci furono Cecilia Deganutti della Brigata Osoppo-Friuli, torturata dalle SS, deportata e uccisa nella Risiera di San Sabba a Trieste, e Virginia Tonelli, che lottò tra Veneto e Friuli per poi essere bruciata viva dai fascisti. «In Carnia e in Friuli – conclude Emmanuelli – c’è stata un’apertura alla partecipazione delle donne alla politica anche se condizionata da un’educazione fortemente legata a vecchie tradizioni».

LA REPUBBLICA PARTIGIANA della Carnia e dell’Alto Friuli operò ufficialmente per quasi due settimane, dal 26 settembre al 10 ottobre del 1944, sulle basi gettate in precedenza nel contesto della Zona Libera. Nell’estate di quell’anno furono progressivamente liberati diversi paesi, a partire da Ampezzo, e si formarono i primi Cln comunali. Le ultime roccaforti della Repubblica Partigiana, invece, furono eliminate a dicembre, annientate dalle dure reazioni tedesche. Nonostante la sua esistenza limitata, l’autogoverno della Carnia fu capace di valorizzare la volontà popolare in uno spazio che rappresentò in nuce la struttura di uno stato democratico.

In esso furono emanati alcuni decreti sulla giustizia, sull’istruzione e sull’ambiente, che possono essere considerati anticipatori della carta costituzionale: dall’introduzione di un sistema fiscale progressivo, fino alla creazione di una scuola finalmente libera dall’impronta del regime. Una cura nei confronti del sociale che continuò nel dopoguerra con Livio Pesce, che fu partigiano garibaldino e poi primo sindaco di Tolmezzo, capoluogo della Carnia. Una fase di rinascita caduta nel dimenticatoio perché, come ricorda la studiosa Laura Matelda Puppini, l’amministrazione Pesce «era di sinistra, ed allora tutto ciò che era di sinistra doveva esser boicottato».