Pronunciato a Bergamo il 20 marzo 1963 e pubblicato su Rinascita con un titolo ambizioso quanto gli obiettivi che si proponeva, Il destino dell’uomo è uno dei discorsi più importanti di Palmiro Togliatti. Non si trattava solamente di comizio da campagna elettorale (si sarebbe votato di lì a un mese), ma di una conferenza programmatica densa di riferimenti culturali. L’espressione di una concezione alta della politica, della quale ci restituiscono una fotografia gli atti del seminario tenuto presso la biblioteca Giuseppe Di Vittorio (Togliatti e papa Giovanni, a cura di Francesco Mores e Riccardo Terzi, Ediesse).
La sezione storiografica fornisce alcuni elementi di contesto necessari per inquadrare il discorso del leader comunista, a cui seguirà l’11 aprile la promulgazione dell’enciclica Pacem in terris. A lungo i due testi sono stati letti in dialogo tra loro, immaginando che Togliatti fosse a conoscenza dell’imminente pubblicazione del documento papale (probabilmente in virtù del suo contatto con don Giuseppe De Luca, grande figura intellettuale di quegli anni).
Mores mette in discussione questa ipotesi facendo appello alla cronologia (De Luca era morto l’anno precedente) e alla sostanziale assenza di prove a sostegno del presunto passaggio di notizie. Eppure, non c’è dubbio che tra le due figure fosse in corso un effettivo rapporto sinergico, «indiretto e proprio per questo molto più stretto e profondo».
Siamo nell’Italia del centro-sinistra, con il Pci impegnato a influenzare il processo riformistico, ma soprattutto siamo nell’età del Concilio, delle decolonizzazione e di quella distensione tra i due blocchi che aveva trovato in Giovanni XXIII un protagonista di primo piano, come in occasione della crisi missilistica cubana dell’ottobre 1962. Non a caso dunque la scelta di Bergamo, la città di Roncalli, dalla quale mandare al mondo cattolico un invito alla collaborazione contro il rischio dello sterminio atomico.
La politica italiana, con la Dc da incalzare da sinistra, rimaneva il punto centrale della tattica comunista, ma la strategia guardava più lontano: a un incontro da raggiungere «non nell’immediato», «non sulla base di un compromesso tra le due ideologie», ma in una prospettiva di lungo corso verso un nuovo umanesimo condiviso.
Giuseppe Vacca ricorda che il dialogo tra cattolici e comunisti aveva alla spalle una lunga storia: la Costituente, l’apertura del «partito nuovo» ai cattolici, l’intesa nel movimento dei Partigiani della pace. Con uno scarto rispetto all’elaborazione di Gramsci, Togliatti era disposto non solamente a riconoscere la legittimità storica del fatto religioso, ma perfino la sua utilità ai fini della lotta politica (X Congresso, dicembre 1962). Dall’altra parte, Giovanni XXIII revisionava il tradizionale anticomunismo cattolico, un processo che avrebbe portato al riconoscimento della dignità dell’ateismo nella costituzione conciliare Gaudium et spes.
Nella Pacem in terris il papa aveva riconosciuto la celebre distinzione tra l’«errore» (il comunismo) e l’«errante», con il quale ricercare dei punti di convergenza. In particolare, si era rivolto «agli uomini di buona volontà» per scongiurare l’esito catastrofico di una nuova guerra, di cui denunciava l’irrazionalità.
Certo, come ricorda Mores, l’appello di Togliatti alla ragione (contro la guerra) non può essere completamente sovrapposto alla «retta ragione» a cui si riferiva il papa, quella del magistero in grado di dividere ciò che è giusto da ciò che non lo è. E tuttavia, è proprio una nuova razionalità l’obiettivo che i due andavano perseguendo (non una revisione dell’illuminismo come invece sostiene Vacca).
Nella riflessione del leader comunista alla classe si affiancava un altro soggetto del divenire storico: il genere umano. In quella del papa, la Chiesa usciva dall’assedio dalla secolarizzazione per impegnarsi nel cambiamento insieme alle altre forze culturali e sociali. Ecco allora che dalla lettura in parallelo del discorso Bergamo e della Pace in terris emerge la ricchezza di quella straordinaria stagione politico-culturale.
I suoi limiti sarebbero emersi con l’inizio della «diaspora politica» dei credenti negli anni ’70. Nel discorso di Bergamo, in cui Togliatti aveva colto nella fine dell’«Età di Costantino» il vero punto di svolta del Vaticano II, mancava la percezione che lo sganciamento della fede dall’identità politica avrebbe condotto alla crisi del cattolicesimo politico italiano: un lento disfacimento tutt’altro che auspicato dalla dirigenza comunista.
Più in generale, la ricerca di nuovo umanesimo si scontrava con una società attraversata da un profondo processo di secolarizzazione che restringeva gli spazi per un profilo ideologico tradizionalmente marxista o religioso. Stava prendendo forma la globalizzazione consumista: la riflessione sul destino dell’uomo nell’età nucleare non è stata solamente il terreno di incontro tre due culture, ma anche un primo tentativo di risposta.