Platone  aveva una scarsa considerazione della democrazia. Riteneva che la politica fosse un’arte ed era convinto che per comprendere l’essenza di quell’arte bisognasse avere delle competenze. Il filosofo ha sempre sostenuto che non c’è alcuna speranza che la moltitudine possa conseguire le abilità richieste per governare, poiché viene facilmente ingannata dai sofisti. Da ciò ne è conseguito, per il pensatore greco, un rifiuto netto per la democrazia come sistema di potere praticabile. È «probabile che le origini della tirannia si trovino proprio in un regime democratico e in nessun altro luogo» (Platone, La Repubblica). Un giusto sistema di governo deve insediare al potere i filosofi, sono loro gli unici in grado di comprendere l’essenza delle cose.

Platone aveva ragione a considerare le sue opinioni incompatibili con la democrazia. L’idea che i cittadini non siano capaci di dare giudizi sull’amministrazione pubblica, che l’economia e la politica siano aree di competenza, come il campo medico, è qualcosa di profondamente antidemocratico. Cosa è necessario dunque per una democrazia al fine di evitare la minaccia che si «trasformi in tirannia»? Secondo quanto affermato da molti studiosi, la democrazia esige una cittadinanza informata, qualcuno che possa impegnarsi in dibattiti pubblici motivati su questioni politiche. È uno standard elevato.

Un’idea più «modesta» dei requisiti necessari alla democrazia è tuttavia difendibile: i cittadini devono avere una ragionevole capacità nel riconoscere quando un’azione politica viene fatta nel loro interesse. La visione di Platone è antidemocratica perché parte dal presupposto che anche questo livello sia troppo alto. La moltitudine sarà sempre ingannata dalla propaganda e dalla falsa retorica, indotta a votare contro i propri interessi.

Una profonda comprensione di come il linguaggio venga utilizzato per insidiare la democrazia stessa è, quindi, essenziale in ogni stato democratico.

Non è necessaria nessuna specializzazione in filosofia del linguaggio o in linguistica per riuscire a individuare alcuni usi della propaganda. Per esempio, è pratica comune negli Stati Uniti dare un nome fuorviante ai disegni di legge. Quello del 2001, che ha permesso alle forze governative di violare la Costituzione degli Stati Uniti, con lo spionaggio dei suoi cittadini, senza un mandato, è stato chiamato «Patriot Act», un nome che ha indebolito la possibilità di fare opposizione.

Più di recente, nel novembre 2013, la Camera dei Rappresentanti americana ha approvato la legge «Swap Regulatory Improvement Act». Il nome del disegno di legge suggeriva che quel dispositivo avrebbe dovuto migliorare la regolamentazione del mercato nel campo dei derivati, lo stesso che provocò il crollo del sistema finanziario mondiale nel 2008 e obbligò al salvataggio di grandi istituzioni finanziarie in Usa. Eppure, scritto quasi interamente dalla megabanca Citigroup, il disegno di legge permette proprio alle banche di utilizzare i depositi assicurati dal governo federale per speculare sul mercato dei derivati. Tutela in tal modo le stesse banche: saranno infatti nuovamente «salvate» se i mercati dei derivati, ancora una volta, subiranno un collasso. È questo in realtà l’unico «miglioramento normativo» che il disegno di legge propone.

La strategia è particolarmente diffusa nella politica economica, in cui le parole utilizzate per raccontare ciò che sta accadendo con gli Stati vengono prelevate dai contesti che descrivono le finanze di una famiglia normale. La parola «debito» è diversa se applicata all’Unione europea, che può stampare la propria moneta, piuttosto che ad una famiglia, che non può farlo. Ma un capofamiglia, che si identifica in colui che cerca di evitare di debito, può essere ingannato e appoggiare politiche che, di fatto, vanno contro gli interessi della sua famiglia; l’imbroglio sta nell’incapacità di comprendere che «debito» significa qualcosa di molto differente se riguarda un governo o una unione politica.

Ci sono poi forme più sottili di propaganda, per le quali un’analisi dettagliata del linguaggio e dell’uso linguistico risulta assai utile. I linguisti distinguono tra ciò che è presupposto da un enunciato e il punto focale del medesimo. Chi è in disaccordo, deve accettare prima i presupposti di quell’enunciato. Se affermo: «È Giovanni che ha risolto il problema», e qualcuno non è d’accordo, deve suggerire che un altro abbia agito. È difficile dire «no» e voler con ciò asserire che il problema non sia stato affatto risolto. L’espressione «È Giovanni che ha risolto il problema» fa presumere che qualcuno lo abbia comunque districato.

Allo stesso modo: «È stato il presidente Obama a causare il disastro», ci dice qualcosa circa il suo tentativo di ampliare l’accesso alle cure sanitarie, ma ipotizza che la legge sanitaria sia catastrofica, affermando però che la causa è proprio il presidente Obama (piuttosto che le assicurazioni sanitarie). L’attenzione al dibattito in linguistica circa il «presupposto» è essenziale per comprendere a fondo cosa stia accadendo.

Un altro tipo di esempio. Lo slogan di canale Fox descrive l’emittente come «imparziale ed equilibrata». Ma è abbastanza ovvio, anche al suo stesso pubblico, che il canale Fox News non sia né l’uno né l’altro. La ragione per cui sfoggia questo slogan è quello di invitare a pensare che non esiste qualcosa che sia giusto ed equilibrato – che non vi è alcuna possibilità di dare notizie obiettive, esiste solo la propaganda. Lo scopo è quello di insinuare che tutti i media siano generalmente insinceri. Gli effetti di un tale pregiudizio sono evidenti nelle società in cui i media statali usano il linguaggio soltanto come un meccanismo di controllo, invece che come fonte di informazione. I cittadini che crescono in uno stato in cui le autorità distribuiscono esclusivamente propaganda non sviluppano alcuna domestichezza con i meccanismi della fiducia.

Quindi, anche se i membri di quella società hanno accesso a notizie attendibili, magari via Internet, non si fidano. Sono addestrati al sospetto. Senza fiducia, non vi è alcun modo, per qualsiasi speaker, di essere preso sul serio nel pubblico dominio. Il risultato di questo atteggiamento? È una società in cui le distinzioni tra politici e clowns svaniscono.

Uno Stato democratico è quello in cui l’ingresso delle persone comuni nelle scelte politiche le rende legittime. Ma la diffusione e l’accettazione della propaganda da parte dei politici e dei media mina la pregnanza della loro partecipazione. Se l’opinione pubblica è stata disorientata dalla propaganda costruita da chi detiene il potere, l’entrata in politica dei cittadini è irrilevante e lo stato non democratico. Uno Stato democratico necessita una cittadinanza sempre vigile, in grado di monitorare e punire i suoi politici e i media quando piegano il linguaggio ad un meccanismo di controllo, dimenticando che è invece una fonte di informazione.

Filosofo del linguaggio, Yale University