Dovevamo aspettarci che, come sempre nel nostro paese, la fase attuale di migrazioni ed esodi – l’emergenza, come dicono loro – fosse descritta dai media col consueto lessico degradato (esso sì): «bivacco», per dire della sosta forzata dei profughi, scacciati da ogni dove, presso stazioni ferroviarie e simili; «assedio», per descrivere l’arrivo in questi luoghi di gruppi di persone (bambini compresi) provate, traumatizzate, abbandonate al loro destino oppure trattate come animali in gabbia o pesci d’acquario (è il caso di Milano); «ripulire» la stazione, per significare liberarla da queste presenze indecenti e dunque «restituirle un po’ di decoro». Così il sindaco Pisapia, che si lascia scappare perfino una variante del tipico «Se le piacciono tanto, se li porti a casa sua», rivolta a una giornalista: «Allora li ospita lei a Sky?»

Per non dire dei lemmi intramontabili che, nonostante la Carta di Roma e altre iniziative analoghe, in alcuni casi vengono rispolverati per l’occasione, in altri semplicemente perpetuati: «zingari», «nomadi», «extracomunitari», «clandestini», «degrado», «esodo biblico» e tutte le varianti della retorica allarmistica, perfino apocalittica…
Non mi riferisco ad ambienti e a mass media di destra o di estrema destra, meno che mai al gergo salviniano. Parlo, invece, del linguaggio di ciò che quasi un decennio fa con un po’ d’ironia cominciammo a definire razzismo democratico o rispettabile, riferendolo a politici e ministri di centrosinistra, ambienti, intellettuali e organi d’informazione democratici (si veda, per es., Giuseppe Faso, Lessico del razzismo democratico, 2010).

Il lessico, si sa, non è mai innocente. Tant’è che i lemmi che ho citato sostengono retoriche che solo chi è di memoria corta può pensare siano nuove. Fra queste, torna in auge la vecchia idea, determinista e in fondo sprezzantemente classista, secondo la quale la plebe sarebbe naturalmente portata ad attribuire a qualche capro espiatorio le ragioni del proprio disagio sociale. Ne discende la tesi, classicamente populista, per la quale al grido di dolore che si leva dalla ‘plebe’ si debba rispondere con severità e rigore verso i capri espiatori, in definitiva negando loro diritti umani fondamentali. E’ una tesi che si fonda (come scrivevo nel lontano 2007) su un principio di tipo omeopatico: per prevenire il razzismo popolare conviene somministrare qualche buona dose di razzismo istituzionale.

Un’altra vecchia etichetta, rispolverata assai di recente, è quella dell’«antirazzismo facile» che, coniata a suo tempo da qualche chierico, credevamo non più in uso almeno tra gli scienziati sociali. Coloro che denunciano «il razzismo più bieco e insopportabile», accusa Chiara Saraceno in un articoletto recente, in realtà gli fanno «da cassa di risonanza» e non si occupano delle «condizioni di disagio in cui questo si genera». Un’affermazione che, tra le altre cose, rivela una lontananza siderale dal mondo dell’antirazzismo militante (compreso quello dotto), perciò immiserito entro un cliché.

Astratte e stereotipate tornano a essere, pur dopo trent’anni di studi e ricerche su migrazioni ed esodi, anche le rappresentazioni delle figure, delle biografie, delle storie di migranti e profughi, in realtà molteplici e complesse ben più delle nostre. Si riaffaccia, anche sulla bocca di colti, la rigida dicotomia profughi/migranti, fattualmente infondata, politicamente assai pericolosa. Senza stare a ricordare la storia dell’immigrazione in Italia e il doppio status reale dei protagonisti degli esodi di massa (gli albanesi degli anni ’90, i giovani tunisini del 2011…), basta dire questo: se pure fossero migranti “economici”, una volta rimpatriati un tunisino e un’eritrea, solo per fare due esempi ipotetici, rischiano il carcere in virtù delle legislazioni in vigore in entrambi i paesi, anche nella Tunisia senza Ben Ali. In realtà, come ho scritto altrove, sono anzitutto il sistema normativo, le sue interpretazioni e applicazioni a decidere, in definitiva, chi sia migrante e chi rifugiato.

Ma, infine, basterebbe soffermarsi su alcune immagini odierne, facendo agire immaginazione ed empatia, per comprendere l’infondatezza di tanti cliché e stereotipi. Guardate le foto dei giovani eritrei, somali, afghani, più alcuni maghrebini, che a Ventimiglia, a pochi passi dal confine con la Francia, protestano sugli scogli dei Balzi Rossi. Guardate i loro volti tirati per le notti insonni, la tensione, lo sciopero della fame. Osservate anche la loro coraggiosa determinazione, riversata nei cartelli che essi esibiscono, grezzamente approntati eppur così efficaci.

E soffermatevi sulle immagini dei tanti cittadini e cittadine comuni, anche povera gente, che va a portar loro abiti, cibo, solidarietà. Guardate le lunghe code, a Roma, delle persone che recano ogni genere di beni di prima necessità per i profughi scacciati dalla Stazione Tiburtina e accolti dal Centro Baobab. Vi apparirà chiaro – e tale dovrebbe apparire a tanti soloni – il contrasto tra la ricchezza di una realtà sociale, certo contraddittoria, difficile, anche a rischio di gravi derive, e l’astratta miseria intellettuale, morale e politica dei decisori nazionali ed europei, e di alcuni loro interpreti.