La prima volta che García Márquez stuzzicò la mia ambizione di giornalista che non concepiva l’idea di lasciarsi sfuggire un colpo, uno scoop, fu al Festival di Cannes nell’82. Era già lo scrittore di Cent’anni di solitudine, L’autunno del patriarca e di Cronaca di una morte annunciata, ma il Nobel lo avrebbe vinto mesi dopo. (…)

García Márquez fu, come sempre, diretto e critico: «Il mondo latinoamericano – mi disse – è un mondo socialmente conflittuale e il cinema occidentale, che da tempo ha lasciato da parte l’impegno politico, vede l’America latina in modo convenzionale, secondo schemi europei».

Fu disponibile, anche se confessò che non amava essere una figura pubblica mentre, come presidente della giuria del Festival, gli toccava «fare lo streap-tease», nel senso che aveva 35-40 richieste di interviste da evadere. Ma l’amore per il cinema, che aveva appreso in gioventù in Italia al Centro Sperimentale come allievo di Cesare Zavattini, e la grande amicizia con l’allora ministro francese della cultura Jack Lang, glielo imponevano. Anni dopo mi avrebbe rivelato che al cinema non sapeva proprio negarsi perché era stato il neorealismo di Miracolo a Milano ad ispirare il suo modo di far letteratura, di dar vita al realismo magico o fantastico, che avrebbe reso mitico il suo mondo, da Macondo alla Invincibile e triste storia della candida Eréndira e caratterizzato la sua scrittura e quella di un’intera generazione.

C’eravamo conosciuti in Messico che è stato, insieme a Cuba, la sua seconda patria, tutte le volte che ha dovuto lasciare la sofferta Colombia, sempre dilaniata dai cartelli dei narcotrafficanti, dai metodi repressivi voluti dagli Stati Uniti per combattere e perdere sistematicamente la guerra al mercato della cocaina. Una guerra sempre dichiarata dai politici che si succedevano nel paese, ma mai affrontata con un credibile piano di riscatto sociale per le popolazioni.

D’altronde il Messico, che pure ha vissuto, e sta vivendo a sua volta stagioni repressive, è sempre stato un approdo sicuro per gli intellettuali in fuga dalle dittature latinoamericane e non solo.

La Rai mi aveva mandato a seguire un viaggio di stato in Messico del Presidente Pertini che poi era previsto proseguisse per la Colombia. García Márquez, nuovamente minacciato nel suo paese, si era rifugiato ancora una volta nella rivoluzionaria terra di Zapata. Lo cercavamo in molti. Il mio amico Pedro Armendariz, grande attore e figlio di un mito del cinema, aveva promesso di farmi chiamare e una notte il futuro premio Nobel lo fece: «Soy Gabo, me dijo Pedro que me estas buscando. Que quieres?» («Sono Gabo, mi ha detto Pedro che mi stai cercando, cosa vuoi?») mi disse con un tono che non prometteva condiscendenze. Spiegai che, come tanti giornalisti, lo volevo intervistare. Invece di rifiutare subito, mi propose: «Facciamo un affare: io ti do l’intervista ma tu mi fai incontrare il tuo Presidente, perché io gli possa spiegare tante cose e lui non vada nella mia patria senza conoscere a fondo la situazione».

Per una richiesta così esplicita chiesi aiuto a Enzo Biagi, decano del nostro giornalismo, anche lui, in quell’occasione, inviato al seguito di Pertini. Antonio Maccanico, segretario generale del Quirinale a cui Enzo scelse di sottoporre il problema, decise, per evitare complicazioni diplomatiche, di incontrare personalmente, insieme a noi García Márquez e poi di riferire a Pertini. Il racconto di Gabo fu chiaro e inquietante, tanto che Pertini decise di aggiustare il tono dei discorsi preparati per la visita in Colombia. Biagi, che avrebbe avuto in esclusiva il reportage, decise invece di aspettare che il filmato che avevo montato con alcune dichiarazioni dello scrittore colombiano arrivasse, due giorni dopo, in aereo in Italia e potesse essere mandato in onda in anteprima. L’articolo di Biagi uscì l’indomani. Una correttezza che, nel mondo dell’informazione, non usa più.

L’amicizia con Gabo è cresciuta nel tempo e in tanti incontri in Messico e a Cuba. L’autore de L’amore ai tempi del colera o Il generale nel suo labirinto ha nutrito, infatti, sempre una tenerezza verso l’isola della Rivoluzione che conobbe come giovane reporter fin dal suo nascere politico e che pur non risparmiandole critiche quando era il caso, ha spesso protetto con la sua credibilità.

Gabo non ha fatto mai dichiarazioni ideologiche, come spesso ha fatto per esempio Vargas Llosa, comunista pentito, ma non si è tirato in dietro quando si è trattato, per esempio, di dar corpo, più di vent’anni fa alla nascita, a San Antonio de Los Banos, della Scuola di cinema più importante del continente, un sogno realizzato con l’argentino Fernando Birri e i cubani Titon Gutierrez Alea e Julio Garcia Espinoza, suoi compagni al Centro sperimentale di cinematografia a Roma negli anni ’50.García Márquez, negli anni ’90, quelli difficili per l’economia cubana dopo la fine del comunismo nell’Est europeo, è stato anche il sostegno pratico della Scuola, dove ancora adesso tiene corsi di sceneggiatura e scrittura creativa.

Ma il premio Nobel non ha avuto dubbi ad esporsi nemmeno quando, alla fine degli anni ’90, Fidel Castro, preoccupato per la proliferazione degli attentati terroristici organizzati in Florida e messi in atto a Cuba, gli chiese, conoscendo l’ammirazione che il presidente degli Stati Uniti Clinton aveva per lui, di portare un messaggio privato alla Casa Bianca.

(…) Il racconto di questa avventura fu l’occasione di una cronaca in prima persona dello stesso Gabo, che conosce molto bene le contraddizioni del mondo occidentale. Ricordo con vera nostalgia la sera in cui finii a cena a Trastevere con una formazione irripetibile: Gabo, Sergio Leone, Robert De Niro e Cassius Clay-Muhammad Alì. Pendevamo tutti dalle parole del campione, ma chi apprezzava di più il sussurro del suo racconto, ronco e a mezza voce, era proprio Márquez. «Parece un cura» («Sembra un sacerdote») commentava ammirato alle mogli e alle compagne, relegate, per una sera dagli uomini, nel tavolo accanto…