Non bastano le poche righe, in qualche modo di speranza, aggiunte da Edith Bruck all’edizione di Lettera alla madre che La nave di Teseo pubblica alla vigilia del Giorno della Memoria (pp. 118, euro 16), per rendere meno straziante il contenuto della lunga missiva con cui nel 1988 la scrittrice si rivolse alla mamma assassinata ad Auschwitz nella primavera del 1944. Un testo doloroso, a tratti tragico, ma testardo e mai rassegnato che per Bruck, sopravvissuta a 14 anni all’inferno del lager nazista, assume la forma di un nuovo incontro con quella figura di cui ha dovuto riempire da sola per l’intera sua vita adulta la tragica assenza.

«Se lo vuoi sapere, tu sei più viva per me da quando sei morta. Finché c’eri era normale che tu ci fossi, nei lager la fame annullava la memoria, il pericolo, la paura divoravano ogni energia, ogni attenzione». Rivolgersi alla madre, ebrea ungherese ortodossa e profondamente tradizionalista, serve a Bruck per tornare sulla sua esistenza dopo la Shoah, per interrogarsi sul suo ruolo di testimone, per indagare su come affronterebbe con lei oggi «il dialogo» con Dio.

Malgrado i genitori di Luiz Schwarcz siano scampati al genocidio – il padre, ebreo ungherese, riuscì a fuggire da un treno diretto al campo di sterminio di Bergen Belsen, ma dovette abbandonare a sua volta a quel destino il papà -, la loro nuova esistenza oltreoceano è rimasta in qualche modo impigliata nelle ombre del passato.

È a ciò che dà voce Schwarcz, una figura di primo piano del mondo editoriale brasiliano, in L’aria che mi manca (Feltrinelli, pp. 170, euro 16) un dolente memoir nel quale descrive «ciò che è rimasto a Bergen-Belsen»: quello che dalla minaccia che aveva gravato sui suoi famigliari ha continuato a spandersi come una nera tenebra sulla sua stessa esistenza, trasformandosi in un malessere costante e nella depressione. Al punto che per tornare «a respirare», o forse per farlo davvero per la prima volta, l’autore che è nato a San Paolo nel 1956 ha atteso più di cinquant’anni per rimontare i lunghi silenzi del padre e riuscire a raccontare questa storia intrisa di paura, sensi di colpa e incertezza.

La memoria su cui torna a far luce la giornalista britannica Rosie Whitehouse ne La spiaggia della speranza (Corbaccio, pp. 322, euro 20) ha il volto di quanti, sopravvissuti allo sterminio, si trovarono alla fine della Seconda guerra mondiale nei campi per rifugiati allestiti in varie località italiane e da qui scelsero di raggiungere quello che nel 1948 sarebbe diventato lo Stato di Israele.

Nel ricostruire questa vicenda e seguendo fino ad oggi le tracce di coloro che lasciarono l’Europa lungo tale rotta, che ha incontrato per la sua inchiesta ad Haifa, Tel Aviv, Gerusalemme, Whitehouse sottolinea come «i protagonisti di questa storia non sono personaggi che appartengono a un lontano passato, ma persone in carne e ossa, che convivono con la Shoah ogni giorno della loro vita».

Con le tragiche responsabilità della Germania nazista si dovrà misurare Erika Sattler, la protagonista dell’omonimo romanzo di Hervé Bel edito da Clichy (pp. 304, euro 19), hitleriana convinta, moglie e amante di SS che segue la ritirata delle truppe tedesche dall’Europa orientale nel gennaio del 1945.

In quello che appare come «un romanzo di formazione nazista» che dà un volto gentile alla mostruosità di un’idea e dei suoi adepti, rendendo così anche più concreta quella minaccia, pagina dopo pagina qualcosa sembra però incrinarsi nelle certezze della giovane donna confrontata con l’orrore.