Oggi cerco di tenere insieme cose apparentemente distanti. Impressioni e riflessioni provate e inseguite nella giornata di venerdì scorso. Un pomeriggio nella meravigliosa sala Zuccari del Palazzo Giustiniani di Roma, invitato da magistrate e magistrati del gruppo Area per una discussione sugli stereotipi che sostengono la «violenza di genere». Un servizio giornalistico visto a tarda sera a Propaganda live: la cronista Francesca Mannocchi e il fotografo Alessio Romenzi, rischiando la propria incolumità, hanno realizzato un documento fortissimo, e a tratti straziante su ciò che sta accadendo in Libia, luogo «alieno», ma in realtà vicinissimo alle vite di tutti noi. Il filmato visto su La7 l’ho ritrovato poi impaginato sull’Espresso di domenica. Ho provato riconoscenza profonda per quei colleghi con l’elmetto accanto alle milizie che difendono Tripoli contro l’attacco di Haftar, e per chi ha commissionato il servizio.

In questi ultimi giorni ho cercato invano informazioni adeguate sulla guerra in Libia sui media nazionali. La «notizia» di questa guerra è scomparsa dalle prime pagine, e a fatica si trova qualcosa nei notiziari a più di metà dello sfoglio. Sembra che l’informazione – non senza eccezioni – si adegui alla linea politica imbarazzata e opportunistica che caratterizza il governo, che ha clamorosamente “mollato” il suo principale alleato Serraj e sta alla finestra per vedere come va a finire.

Non mi interessa qui come ci si debba schierare (certamente non con chi comincia a sparare mentre si discute di negoziati) ma ascoltare la voce di chi in Libia combatte sperando ancora nell’esito positivo della «rivoluzione» che ha abbattuto Gheddafi. E ancor più le voci di chi non combatte, ma soffre da anni nell’inferno dei campi libici in fuga da guerre e massacri, e ha subito le torture, le violenze e i ricatti più infami. Donne stuprate davanti ai figli. Uomini ormai disposti a affogare nel Mediterraneo pur di salvare quel che resta delle loro famiglie.
Voci ascoltate in quel servizio, che stridevano terribilmente con i propositi del nostro scandaloso ministro dell’Interno.

E qui vedo un nesso con la discussione aperta dalle magistrate e i magistrati di Area. La violenza contro le donne attraversa tutto il mondo e segna come enorme colpa maschile il ricorso alla guerra e a tutte le forme di prevaricazione. Le parole, sempre, ma specialmente in questi contesti sono armi potenti. È potente il silenzio dei media su drammi tanto vicini. Sono potenti gli stereotipi sessisti che si ripetono nelle cronache dei tanti «raptus», o del «troppo amore», che motiverebbero i femminicidi quotidiani.

Tanto più grave il linguaggio che questi stereotipi ripete se esso informa – come è avvenuto in diverse recenti sentenze – i testi della legge.
Questo è stato ripetuto e sottolineato nella discussione di venerdì pomeriggio: la responsabilità simbolica del linguaggio della legge è enorme, e la magistratura non è ancora sufficientemente attrezzata.

Non si tratta di inventare nuovi reati e altre pene ( tantomeno la castrazione chimica che piace tanto a Salvini): in Italia – è stato detto – già molte norme adeguate sono state introdotte. È la cultura degli operatori e operatrici ( e degli «esperti» che spesso accompagnano il processo) che deve cambiare.

Non a caso l’intervento più applaudito è stato quello della «libera pensatrice femminista» Alessandra Bocchetti, che ha parlato della «rivoluzione difficilissima e lenta» che le donne stanno compiendo non per il potere ma per affermare la logica della cura contro quella della conquista.