Le prime battute della serata gelano l’elegante platea della cerimonia di chiusura. Asia Argento sale sul palco per consegnare il premio alla migliore attrice e senza esitare dice: «Qui nel ’97 sono stata stuprata da Weinstein e ho avuto una premonizione: che quell’uomo finisse in rovina e non potesse mai più mettere piede a Cannes». E premonitorie sono, in qualche modo, anche le sue parole su un Palmares che, al contrario delle voci dovute soprattutto alla presenza di Cate Blanchett, in prima linea nel movimento Time’s Up (si diceva sarebbe stato tutto «al femminile»), ha scelto comunque i temi «forti» dell’impegno, i film che parlano del presente , dei suoi conflitti, delle sue miserie, di chi vive ai margini in una società globale in cui sempre più si esaspera l’abisso tra chi è povero e chi invece può permettersi una vita «normale».

È questa la linea che corre tra i titoli prescelti a cui sfugge soltanto il premio al patinato Cold War di Pawlikowski, che scambia la confezione per talento di regia. Ognuno lo fa in modo molto differente, a grana grossa e persino con cinismo (Labaki) o dentro a un’idea di cinema controllato, come nel caso della Palma d’oro, Shoplifters di Hirokazu Kore-eda, una nuova riflessione sul nucleo famigliare, soggetto sempre al centro nei suoi film, che diviene riflessione critica sul Giappone contemporaneo. Quindi l’America razzista e populista di Trump nel film di Spike Lee (BlackKklansMan), la Russia putiniana dei migranti, cittadini delle ex-repubbliche sovietiche, trasformati in schiavi, invisibili e senza alcun diritto (Ayka di Sergey Dvortsevoy) o dei bambini profughi siriani in Libano (Capharnaum di Nadine Labaki).

L’Iran di Panahi, (Three Faces) , a cui il governo impedisce di uscire dal Paese. I contadini poi marginali urbani di Alice Rohrwacher (Lazzaro felice), il fragile Marcello, Dogman di Matteo Garrone, che nella violenza quotidiana perde per sempre persino il suono della parola «ammore».
Ma se il regista giapponese ci chiede di riposizionare il nostro sguardo, e di mettere in dubbio le certezze delle superfici, lo stesso non si può dire di Labaki la cui necessità di mettere al centro della scena sembra sintonizzarsi con quella predisposizione mediatica (certo c’è da essere contenti che non sia Palma d’oro come tutti dicevano nei giorni passati) del soggetto, del topic, che porta commozione o indignazione nelle occasioni importanti – un po’ come, in alcuni casi, parlare di donne…

Che Palmares è dunque questo del Festival (no selfie) 2018, in cui il cinema italiano si porta a casa due premi su due film, ottimo risultato con due dei suoi autori fuoriclasse?
Sceneggiatura a Lazzaro felice (che forse non è quello più calzante per il film) e il migliore attore allo splendido Marcello Fonte per Dogman di Matteo Garrone (ma perché non anche la regia almeno), piccolino sul palco in quello che è già un geniale pezzo di televisione, con Benigni che lo chiama, e lo abbraccia, e lui ricorda il sogno di sentire gli applausi da bambino …

L’impressione è che sia un po’ «comme il faut»; tutto a posto, quasi un algoritmo con molti probabili compromessi Compresa quella «Palma speciale»che fa tanto gadget chiesta da Blanchett per Le livre
d’image di Jean Luc Godard: perché allora non la Palma, perché non mostrare un po’ di «coraggio» in più, premiando quello che è stato il film più sorprendente del Festival, in cui il mondo e il suo conflitto è tutto là senza bisogno di lacrime d’occasione? . «Non dimenticate che non saremo mai abbastanza tristi perché il mondo sia migliore» ha detto sul palco Mitra Farhani, insieme a Fabrice Aragno, ritirando il premio per Godard. Sarebbe bello ricordarselo anche lontano dai galà.