Nel 2010, mentre negli Stati Uniti usciva White Egrets (Egrette bianche), l’ultima raccolta poetica di Derek Walcott, in Italia l’editore Adelphi pubblicava il poderoso Isole. Poesie scelte. 1948-2004, un’ampia selezione dai dodici volumi apparsi nel corso di una carriera di quasi sessant’anni.
I due eventi sembravano programmati per cadere in coincidenza dell’ottantesimo compleanno del grande poeta dei Caraibi (e non solo dei Caraibi), premio Nobel nell’allusivo 1992, quasi in omaggio gemellare da entrambe le sponde di quell’oceano dell’«odissea guineana» che, per Walcott, nato – come teneva a ricordare più volte – sotto il segno zodiacale dell’acqua è stato oscura origine e, al contempo, percorso di vita e di arte e, quindi, specchio mutevole del suo volto di poeta rifrangente le sue dibattute personae: schiavo, esule, irredentista, viaggiatore «fortunato», bardo/menestrello afro-greco.

SONO ANIME SFACCETTATE eppure tutte vive in Walcott, ma divise, nel corso del tempo, dal suo rapporto problematico con il «dono» ricevuto (il bounty del poetare in lingua inglese), fino alla dura scelta di pervenire a una accettazione (a differenza di altri scrittori caraibici) dell’identità «mulatta» piuttosto che «nera», mulatta in nome non del sangue misto che gli scorre nelle vene (un mélange inglese, olandese, africano), bensì in quello del colore di una parola impura, densa di convergenze, ridisciolta in un «dialetto salmastro», capace di sommuovere l’ordine immacolato della tradizione occidentale.

Isole ricostruisce il percorso di una tormentata obbedienza al dono ricevuto e ripercorre la storia di una «mente» emersa dai marosi della diaspora africana che, «tra rifiuti marini, avvista la sua costa mitopoietica».
Paradossalmente non c’è poeta che, come Walcott, abbia iniziato nell’amnesia: «Senza nome venni tra olivi di alghe, / Feti di plancton, non ricordo nulla». Nel crepuscolo tropicale del Mar dei Sargassi, lì dove, quando tutto sembra compiuto, il sole «stanco dell’impero» cala, Walcott ha iniziato sin da giovane a girare «le pagine bianche dell’oceano», scandagliando i fondali della Storia: «Vuoi sentire la mia storia? Chiedi al mare», scrive nella lirica Origini (1964).

Dalla «buona istruzione coloniale», unita all’apprendistato insulare nel patois nazionalista (come autore di teatro e come pittore), e dalla fucina poetica della madrepatria (l’Inghilterra) e degli Stati Uniti di metà secolo (dagli ammirati Robert Frost, Robert Lowell, W. H. Auden), dove, per altro, «la lingua s’incrosta e si annerisce» di «cultura ribollita», la voce del poeta ibrido emerge risanata dal «regno sottomarino», ma solo dopo aver compiuto un necessario viaggio agli Inferi, fra le «cattedrali» di ossa dei padri annegati lungo la «rotta degli schiavi», come fa Shabine, maschera di transizione di Walcott: il «negro rosso» dagli occhi «verdemare» della Goletta Flight.

MENTRE NEGLI ANNI Settanta del Novecento si recita la litania dell’indipendenza politica delle isole dell’arcipelago (nel 1979 per la nativa St. Lucia), Walcott decide che o sarà «nessuno» o sarà «una nazione». La contesa con la Storia e la «cultura ribollita» dei bianchi colonizzatori, oscillante fra ossessione e responsabilità, si placherà nell’assunzione del ruolo di «parvenu coloniale», un solitario «satellite orbitante» sulle ceneri dell’Occidente sotto cui cova ancora quel fuoco prometeo passatogli in dono: la lingua e la tradizione poetica, il «fardello» (burden) dei colonizzati. «È bene che non sia rimasto nulla, tranne la loro lingua, / che è tutto – dice con acredine – e può essere una vendetta puerile / per le presunzioni degli imperi ascoltare il verme / che rode le loro colonne solenni in un corallo».
Ha ragione Seamus Heaney quando individua nella fase mediana della carriera di Walcott il giro di timone del discorso poetico dell’amico che, attraverso l’alter ego chiamato Shabine, supera la «propaganda», lo stadio «dell’autointerrogazione, dell’autorivelazione e dell’autoterapia per divenire una risorsa comune». Ovvero, supera la condizione, ormai stereotipa, di un Calibano pronto a «maledire» il suo colonizzatore, esercitandosi nella resa dello splendore subacqueo del «corallo» domestico che egli declina in nomenclature adamitiche (del patois) tipiche del poeta dell’ultimo Nuovo Mondo: nomenclature nuove (esotiche) che Walcott cesella con mano facile a turgide metafore o ironiche duplicità semantiche, prova di singolare maestria tecnica e di studio verticale nella storia della lingua inglese, il tutto piegato anche alla rivalsa di uno pseudo-ventriloquo di talento che va prendendo posto di diritto nella tradizione bianca «alta», e, al contempo, del trickster tribale che usa la parola come un prisma rifrangente.

A INIZIARE dagli anni Ottanta, Walcott lascia indizi più precisi, meno coloristici e più culturalmente eloquenti, della trama mitografica (non mitologica) che, dietro l’arazzo paesaggistico, va immaginando per il suo arcipelago: l’epos «ibrido», «meticcio», che intanto va scrivendo. In Omeros (1990), il suo capolavoro di ottomila versi in terzine dantesche, ambientato a St. Lucia – la santa dei bardi ciechi come Omero – egli non racconterà la «presenza del passato», come i maestri dell’epica novecentesca (Joyce, Pound, Eliot), ma l’esilio forzato dal proprio passato etnico di una comunità caduta, alla nascita fuori dei confini della terra madre, in un logos coloniale, in ciò che Walcott definisce l’«artificio stanco chiamato storia», di cui, come il Filottete omerico, questa comunità deportata mostra ancora oggi le ferite putrescenti.
Omeros narra di alcuni discendenti caraibici del cast dell’Iliade (Achille, Ettore, Elena…), e di un percorso a ritroso attraverso l’Atlantico dai Caraibi, un paese ormai da cartolina turistica, verso i padri africani, per fare poi ritorno all’altra patria con identità più fondata nel nome del padre: «Ho cantato il quieto Achille, figlio di Afolabe».

Il mare è il testo comune a vecchio e nuovo mondo, ha dichiarato più volte Walcott. Ed è per questo che egli umilmente si pone in ascolto degli stanchi suoni metrici risciacquati dai secoli, fino a provare a ricominciare dal multirisonante polyphloisbos della risacca greca: «fermiamoci sul mare, / intanto che stabiliamo la loro (delle sue isole) antica interazione, / un’allusione omerica, un tocco di poesia, / prima che scoppi il bordello», prima che sopraggiunga il peccato originale, il caos babelico della Storia. Con Omeros Walcott si mostra pronto a una negoziazione con il passato e con la lingua impostagli dal passato. Tuttavia, placato il risentimento coloniale, resta sempre un po’ di amarezza: «I classici consolano. Ma non abbastanza».

DIVERSAMENTE da Iosif Brodskij, cui lo unisce l’archetipo ovidiano dell’esilio, più credibile della religione delle metamorfosi, Walcott si aggrappa al suo genio mitomorfico (privo di comunione) piuttosto che mitologico: «Buona fortuna alle tue elegie romane», augura all’amico, «che il miele del tempo vaglierà come quelle di Ovidio. / I coralli insabbiati fino alle finestre sono le mie cupole sacre, / i gabbiani che volteggiano su una senna sono i piccioni della mia San Marco, / legioni argentee di sgombri sfilano per le nostre catacombe». La fede di Walcott resta nel suo arcipelago.

È lì la riserva brulicante da cui, sembra, egli voglia pescare quel mitologema nativo, nutrito dalla «Musa dell’Amnesia», che sembra consegnarci, infine, la straordinaria purezza lirica delle sue Egrette bianche (Adelphi, 2015): «Attento alla luce del tempo e a quanto spesso permetterà / alle ombre del mattino di allungarsi sul prato / alle egrette impettite di scuotere i becchi e inghiottire / quando tu, non loro, o tu e loro, sarete spariti». Questo è il suo envoi.