Per i Greci una stupefacente ricchezza di figure sorge dal mito, nella molteplicità di aspetti, volti, voci, colori, che appartiene alla dinamica dei simboli: la loro unità è fatta di opposizioni speculari, e su essa si fonda la bellezza della letteratura, ogni idea di bellezza. Elena ne è l’archetipo. E gli archetipi hanno a che fare con le origini, con le idee, con il divino e il sacro. Figura divina o semidivina, non personaggio, dunque, in Euripide Elena è onnipresente, in tutte le possibili ambivalenze. Non solo recupera la sua duplicità, ma moltiplica e intensifica tutto quel che era emerso in Omero, in Esiodo, in Eschilo. Soltanto Saffo, erede della Grande Madre, considera l’«autodeterminazione» di Elena, che sceglie «la cosa più bella», ossia «ciò che uno ama», in vertiginoso squilibrio con la passività di essere trascinata da Afrodite: e così anticipa l’eros di Platone e dei mistici. Mentre Omero, in piena areté patriarcale, omette l’origine tutta divina di Elena, nata da Zeus e dalla dea Nemesi, riportata da fonti tarde su tradizioni antiche. Nell’Iliade Elena ricorda l’idea di Nemesi solo in due espressioni. Quando sulle porte Scee, abbagliati dalla sua bellezza, i vecchi la assolvono: «ou némesis», «non è motivo di biasimo», se Troiani e Achei sopportano dolori per lei. E quando si rifiuta di ubbidire ad Afrodite, se ne vergogna, ma deve cederle, come sua schiava. Sciagura per sé e per gli altri, creatura del fato, che non è lei a determinare, è comunque al centro delle vicende che tesse sulla grande tela purpurea. Nonostante l’assoluzione di Omero e dei vecchi, non si sente innocente: è portatrice della colpa che forse desidera, e ne è divorata. Si definisce «cagna»: vuole morire. La sua doppiezza è tragica: fonte di angoscia, di lutti, di maledizione per tutti.
Nell’Odissea, tornata alla sua reggia con Menelao, Elena è la regina maga, che conosce i segreti dei farmaci, e può donare l’immortalità. Siede serena sul suo trono, nel palazzo sontuoso che splende come il sole e la luna. Sì, ricorda il tentativo di tradire Paride, le insidie poco nobili con cui ha ingannato gli eroi achei chiusi nel cavallo fatto costruire da Ulisse, imitando così bene le voci delle loro mogli. Ma non ha rimorsi, né Menelao prova rancori verso di lei. Elena è al di sopra del bene e del male, come gli dèi. Sebbene queste due immagini omeriche sembrino inconciliabili, in entrambe Elena dimostra in ogni sua azione una intelligenza superiore, metis, e soprattutto sa fare mito e racconto: le supreme forme dell’immaginazione. Come mostra la figura di colei che tesse, ordisce il fato, lo fissa nella trama, lo interpreta: è la figura, per traslato, di chi fa poesia, della poesia.
Da un lato in Euripide – come in Eschilo – Elena possiede ancora il potere dell’incanto mostruoso, gli occhi che perdono «gli uomini, le navi e le città»: immensamente frivola, innocente e crudele. Ma dall’altro, riprende quel carattere solare, di bellezza e grazia imperturbata che le è proprio. Nelle Troiane e nell’Oreste (e in Ecuba) è lo spirito contaminatore della Discordia, Erinni, Kere partorita dalla tenebra della nera Notte di Esiodo, vicina al Caos; invece di essere figlia di Tindaro o di Zeus, i suoi padri sono dèmoni: Invidia, Morte, Assassinio, Alastor, genio della vendetta. Priva di grandezza, è un mostro che attrae suscitando la furia della passione, una predatrice terrificante, che semina orrore, e distrugge: un’ignobile accusatrice, una sofista che rovescia i fatti: scarica da sé ogni colpa, rigettandola su Afrodite, Menelao, e soprattutto su Ecuba. Anzi, rivendica a sé una corona, perché ha salvato la Grecia dai barbari.
Ma tutto ciò si dissolve nell’Elena di Euripide, dove l’archetipo diventa protagonista, ed Elena si interroga in un’oscillazione continua di allusioni ai ruoli che le sono stati attribuiti. Come lei stessa racconta, dopo le nozze di Teti e Peleo, dove Eris lancia il pomo della discordia e Paride assegna la vittoria ad Afrodite, che gli ha promesso la donna più bella (ossia lei), Era si vendica contro Paride e i troiani convincendo gli dèi a rapirla, creandone un doppio identico, con la sostanza di una nuvola. È questa immagine fantasmatica, il suo èidolon, che ha seguito Paride, mentre lei se ne è stata nascosta presso Proteo, re d’Egitto, e figlio di Nereo, uno dei Vecchi del Mare. Ora, dopo la morte di Proteo, Elena è terrorizzata, perché il figlio di lui, Teoclimeno, con il tirannico potere di vita e di morte del sovrano barbaro, ha deciso di sposarla. Non le resta che rifugiarsi alla tomba di Proteo, cercando la protezione numinosa dei morti.
È un’innocente moglie amorosa, che ha sempre atteso lo sposo Menelao, doppiamente sofferente per la cattiva fama non meritata, e per le sciagure che sono intervenute intorno a lei e su di lei. Sebbene soltanto l’èidolon con il suo nome – non il suo corpo – sia andato a Troia, la guerra e la rovina di Troia sono state reali; reale è il suicidio – per vergogna – della madre Leda, reale forse la morte dei fratelli Dioscuri, reale forse anche la morte di Menelao. Elena è una semidea solare, radiosa, che dalla denigrazione acquista luce. Inneggia all’armonia del mondo, alla pace, alla gioia, alla serenità. Ecco apprende da Teucro, il fratello di Aiace, che fugge verso Salamina, la rovina di Troia, il ritorno dei greci. Ed ecco che giunge proprio Menelao, nei consueti stracci dove Euripide infila i suoi eroi. Da Teucro Elena ha dovuto schermarsi, convincendolo non essere quella che lui ha riconosciuto: ora deve convincere il marito che è proprio lei.
Il coro delle schiave greche li persuade a cercare l’aiuto di Teonoe, la vergine profetessa, sorella di Teoclimeno, che ha ereditato da Nereo il dono della divinazione, e soprattutto, ospita dentro di sé «un grande tempio della giustizia». Teonoe approverà, ma non sarà di grande aiuto. I due dovranno ricorrere all’inganno e alla fuga con un atto di forza. Sarà nell’inganno di Teoclimeno che Elena, suo malgrado, riprenderà l’archetipo, la potenza del nome: la luce della «bellezza» incomparabile, la Xaris legata ad Afrodite e a Eros, la sua invincibile, originaria forza erotica. Ma, come a Troia e in Pinocchio, inganni e bugie hanno le gambe corte, ed è necessario il più ex abrupto degli deus ex machina, quello di Castore con il fratello, per convincere definitivamente Teoclimeno a rispettare la promessa del proprio nome: colui che «trascorre la vita onorando gli dèi».
In questa tragedia a lieto fine scritta nel 412 a.C., ventesimo anno della guerra del Peloponneso, durante la crisi irreversibile di Atene dopo le disfatte in Sicilia, Euripide si richiama alla leggenda che assolve Elena da ogni colpa, trasmessa da Stesicoro e ripresa da Gorgia. Come Stesicoro, colpito da cecità per avere offeso Elena, e recupera la vista solo dopo averne fatto ammenda, Euripide azzarda l’impensabile, che i simboli occultano. Per il «pacifista» Euripide Troia, perduta per il simulacro della bellezza vera che Elena incarna, è simbolo di tutte le guerre, come Elena lo è delle illusioni. Ma cosa è quella bellezza vera? cosa è l’illusione? Che Elena, e tutti quanti, siano vittime degli dèi o di Tyche, resta il dubbio sulle forme degli eventi, sulla loro indecifrabilità, sull’illusione umana. La natura dell’èidolon, del simulacro, impone di riconoscere la sapienza simbolica, il linguaggio sfaccettato dei miti e delle loro immagini.
La «nuova» (kainè) Elena, come la chiama Aristofane, nel suo singolare, ironico rapporto con Euripide, è una figura meravigliosamente ambigua in una tragedia dove tutto è doppio, rovesciato, sfuggente, contraddittorio, complicatissimo, all’insegna davvero dionisiaca della frantumazione di ciò che pareva granitico, come gli dèi, i loro miti, perfino la storia, e il modo di vederla. Sfugge anche l’«ateo» Euripide, che porta alla dissoluzione ogni certezza mentre ripristina la consacrazione originaria della tragedia a Dioniso, nel II stasimo, dedicato alla più misteriosa e potente delle figure: la Grande Madre.
Il lavoro ottimo che compie Barbara Castiglioni nel curare un testo così difficile, con una introduzione che discute ogni ricreazione delle Elene antiche e moderne, e un commento ampio e preciso, è accompagnato da una traduzione elegante, che segue la mobilità musicale e metrica di un grande poeta, concentrato e profondo, quasi insondabile in ogni immagine e parola, a partire dai nomi, nel doppio d’apparenza e realtà (Euripide, Elena, a cura di B. Castiglioni, Nota al testo e Appendice metrica di Liliana Lomiento, Fondazione Lorenzo Valla/ Mondadori, pp. CX-383, euro 50,00). Come nell’epica, quasi ogni nome sottintende dei sistemi di credenze ed estetici. Penso, ad esempio, oltre a Teoclimeno, a Teonoe: «mente divina» «perché conosce tutte le cose divine, presenti e future». Prima di chiamarsi Teonoe in maturità, da ragazza, pura parthenos, si chiamava Eido. Carlo Diano, il grande grecista di Forma ed evento, tradusse «significa Forma»: vi aveva scorto il suo nucleo concettuale.
Non c’è un personaggio che non sia soggetto al dubbio, all’ironia, al gioco delle apparenze, come in un metateatro, in Amleto, o in Pirandello. Eppure, anche quando tutto si risolve con l’arrivo dei fratelli Dioscuri sui loro grandi cavalli alati, sentiamo che come sempre è lei, l’ingannatrice ingannata, ad avere suscitato tutto, a essere stata la soglia della propria bellezza, creata «dall’etere» come le aurore vediche – sorelle degli Asvini-Dioscuri – dove il crepuscolo crea un doppio, un’ombra, Chaya, in greco skiá, che significa «fantasma»: analogia ricostruita da Vittore Pisani, che proprio sull’Elena di Euripide si era laureato. La luce del sole non permette di essere fissata direttamente, ma solo attraverso un filtro: è il velo delle Grazie, è l’«ombra della luce vivente» che permette a Ildegarda di «vedere».