«La mia vita è silenziosissima. Vivo in una casetta tranquilla perduta in una piccola città che è poi un grosso villaggio: le montagne sono il mio orizzonte, i libri i miei amici, il silenzio, lo studio, i sogni sono i cavalieri della piccola corte del mio ingegno». È il 1892 e una giovanissima Grazia Deledda scrive a un suo illustre amico con cui intratterrà un lungo epistolario: Angelo De Gubernatis. Alcune sue conoscenze settentrionali la chiamavano fiore d’agave ed è pur vero, come ribadisce lei stessa perché – seppure l’interno fosse dolce – era nata tra le spine e le conservava.
Quella casetta tranquilla, risalente alla seconda metà dell’Ottocento, si trova a Nuoro nel rione San Pietro. La scrittrice vi abita fino al suo trasferimento a Roma (dopo un significativo intermezzo cagliaritano), in seguito al matrimonio con Palmiro Madesani. È l’11 gennaio del 1900 ma vi si stabilisce definitivamente solo qualche mese più tardi.

L’orto che contamina

Gli anni nuoresi sono cruciali: l’apprendistato alla scrittura che nel 1926 la farà arrivare al Nobel per la letteratura; i primi scambi con giornalisti e scrittori incuriositi dal suo talento. Ma anche le prime perdite che mettono a dura prova la sua fiducia nel mondo: dapprima la sorella Giovanna, poi Enza, il padre e infine la sfortuna toccata al fratello Santus. Tuttavia, nel dispiegarsi vertiginoso degli eventi, Deledda custodisce un esatto senso di osservazione del circostante che non l’abbandonerà più.
Nonostante le condizioni mutate e un amore ambivalente verso la sua città barbaricina, sono gli anni più belli della sua formazione. Comincia a scrivere romanzi e novelle e scopre se stessa: «Invece di sentirsi piccola, e poiché era impotente a volare, le parve di essere alta, alta fino a toccare con la fronte la stella della sera». Questa percezione di finitudine si espande in un sapere. Del resto – ha notato Maria Giovanna Piano (Onora la madre, Rosenberg&Sellier)- «come molte donne che hanno lasciato nel mondo testimonianza di sé» era attraversata da «un forte sentimento di grandezza».
Nel 1913 la casa viene venduta ma resta praticamente immutata nella struttura. Viene acquistata dal comune di Nuoro nel ’68 che a sua volta la cede all’Istituto Superiore Regionale Etnografico. È quest’ultimo ad aver dato avvio alla ricostruzione degli ambienti così come sono stati descritti da Deledda in quello che viene considerato il suo romanzo più autobiografico, Cosima, pubblicato postumo e che, come ricorda Laura Fortini («Diventare donne, diventare scrittrici nel primo Novecento italiano» in Il romanzo del divenire, Iacobelli) può essere letto come «un trattato di poetica nei termini della critica novecentesca, e di autoriflessione rispetto la propria scrittura, il sorgere della scrittura in una ragazza che diviene donna in Sardegna e scrittrice in Italia». Anche il giardino, o corte come più specificamente viene chiamato, è nello stesso posto di un tempo.
Dalla finestra della cucina, dove compare un tavolo di castagno, un camino e un focolare centrale, se ne scorgono i bordi. Attraverso un uscio che dà su un piccolo cortile di forma triangolare, si trova il passaggio luminoso e stretto verso il giardino.
Come a varcare una gola di montagna, Deledda lo visita quasi quotidianamente con una sensazione di festa. Lo racconta lei stessa ne La casa paterna, novella del 1890 (che insieme a molte altre opere deleddiane è stata finemente curata da Giovanna Cerina): anzitutto, si tratta di un perimetro prezioso che avverte profondamente suo. Parole di simile vicinanza le usa in altro contesto solo per la sua camera da letto dove accede al suo scrittoio e ai suoi libri.

Tra la vigna e il bosco

Così, quel raro lembo di terra è luogo familiare e dell’infanzia variamente riproposto in alcune sue scritture; traslato o contaminato dalla vicinanza all’orto, al bosco e anche alla vigna, il giardino dell’abitazione nuorese è per Grazia luogo della memoria e spazio emotivo di riflessione. Momento della convivialità e dello scambio amicale, Deledda vi trascorre ore indimenticabili. Averne cura non è un dovere ma un compito che risponde al suo desiderio.

Eppure il giardino è anche un topos deleddiano che insieme all’orto, alla campagna, alla vigna e al bosco trova corrispondenza in numerose suggestioni narrative. Fine e prolungamento della casa, rappresenta infatti un elemento metonimico di ritorno all’origine. Non a caso Deledda parla di un «lembo di Eden», ricco e prezioso com’era di rose di ogni colore, siepi di gelsomini, gigli, giaggioli, viole, garofani, giacinti e ginestre. Quelle piante e quei fiori, presi in cura quotidianamente, le avevano valso l’appellativo di giardiniera. Nonostante Deledda parli di soli due metri, in realtà si tratta di una corte ben più estesa in cui ancora oggi sopravvivono due grandi lecci secolari, un antico glicine che sovrasta il portone d’ingresso e infine un cedro, una pianta di corbezzolo, un albero di alloro, una palma e delle viti.
Attualmente, il giardino fa parte di quella che dal 1983 è la Casa Museo di Grazia Deledda, monumento nazionale dal 1937, un anno dopo la scomparsa della scrittrice. È destinato all’ospitalità di manifestazioni culturali di rilievo ed è visitabile da chiunque decida di andare nel capoluogo barbaricino.
Delle sue esperienze di immersione nella natura, Deledda restituisce il doppio volto del giardino e del bosco senza che la campagna, la brughiera e l’orto ne rimangano espunti. Irreprensibilità e selvatichezza racchiusi nei suoi occhi della mente, servono a raccontare di quella creatura «piccola, scura, sognante, come una beduina che pur dal limite della sua tenda intravede ai confini del deserto i miraggi d’oro di un mondo fantastico».
Un’ardente vastità si colloca nello sguardo della sua scrittura che acquisisce nel tempo l’amore per una genealogia della comunità e dei corredi familiari, nell’isola e fuori. Anche il giardino dunque, al pari delle narrazioni minute e imprevedibili che registra, assume una portata simbolica. Fisica e simbolica giacché significa spazio vissuto e desiderio di mutamento.
In tal senso sono forse da leggere i mazzolini di fiori che raccoglieva dalle aiuole e dalle siepi, composti per le amiche che andavano a farle visita: «un lievito di vita, un germogliare di passioni e una fioritura freschissima d’intelligenza simile a quella dei prati cosparsi di fiori selvatici».

I pini che parlano

Soprattutto in Cosima il giardino della casa natia si contamina di ulteriori escursioni tese a significare l’esercizio silenzioso e potente che è stata la sua scrittura. Si illuminerà dunque il bosco di elci sul Monte Ortobene e la curiosità per gli orti dei vicini; la severità delle montagne e la lezione del lavoro paziente che taglia i nodi delle mani. E poi quei «convegni di amore» apparecchiati nella scrittura che corrispondono a pini che parlano, coccinelle laccate di meraviglia, e allo stordimento misterioso provocatole dal profumo delle rose.
È forse per il ricordo di quell’angolo di completezza che Grazia Deledda crea un ulteriore giardino anche nella sua casa romana. Invaso di acanti, quasi mille tipi di fiori e piante lo hanno colmato. Di alcuni, confessa, non conosceva neppure il nome perché nascevano spontaneamente per essere identificati spesso in un momento successivo. Certo era ormai arrivata nella pienezza della sua età adulta e non passeggiava più lungo la corte dell’infanzia come «un’aquiletta catturata, pronta a spiccare il lungo volo appena avesse potuto». Anche qui tuttavia, a Roma come a Nuoro, la giardiniera è rimasta lei.