La Cina, tra le tante altre cose, è anche il paese delle «città fantasma» per eccellenza; si tratta di una caratteristica che il paese ha aggiunto ad altre, tutte da record. Di luoghi fantasma in Cina ce ne sono di diversi tipi. Il primo genere riguarda le città nel senso proprio del termine: agglomerati urbanistici sostanzialmente disabitati. Interi quartieri di città vedono schierarsi file di palazzi, da sei e dodici piani: un quadro geometrico quasi perfetto e tra le case si può trovare perfino qualche angolo di verde.

ANCHE IMMAGINANDO le abitazioni piene all’inverosimile di persone, l’impressione è che in quei posti la socialità non possa esistere, tanto asettica appare la sistemazione: senza negozi, locali, supermercati. Si tratta del simbolo di una potenziale forma di alienazione che in realtà neanche è avvenuta, perché quei palazzi sono completamente vuoti. Il caso più eclatante è Ordos, «la città dei palazzi», in Mongolia interna: doveva essere un centro politico e culturale; la città doveva ospitare prima un milione di abitanti, poi la cifra è stata rivista al ribasso: trecentomila. Ordos è una città che è stata costruita con forme vistose e innovative, basti pensare alla biblioteca o allo stadio comunale, vere e proprio opere di grande impatto architettonico.
Oggi è una città quasi deserta, pur non essendolo del tutto: secondo il New York Times al momento ci vivrebbero centomila persone. In questo caso, c’è di mezzo il carbon fossile: sotto la città c’è la cassaforte cinese di carbone; un sesto del totale utilizzato dalla seconda potenza economica mondiale arriva da là.
In altri casi meno noti di città fantasma, c’è di mezzo il business dell’edilizia, con le sue mazzette e il suo peso politico.
Infine, esiste un fenomeno tutto da studiare: l’urbanizzazione cinese, lanciata in grande stile negli ultimi 15 anni, passando dalle grandi città a quelle di media dimensione (quelle di «seconda e terza fascia», come le qualificano i cinesi) ha indubitabilmente subito un freno. I giovani preferiscono rimanere nelle campagne, provando magari coltivazioni biologiche, sperimentando forme di energie pulite e alternative; non si sobbarcano più viaggi in treno colmi di preoccupazione, con la conferma poi, una volta arrivati in città, che quello non sia il proprio posto.

IL FENOMENO delle costruzioni è talmente vasto da diventare addirittura da esportazione: in Africa accade lo stesso; i cinesi hanno edificato interi quartieri o abbozzi di metropoli che oggi risultano completamente vuoti. Si dice che lì andranno a vivere milioni di cinesi, lo si dice da anni però. Al momento non c’è nessuno: case dai tetti gialle, dalle infrastrutture chiare a specchiarsi su un panorama quasi desertico, indicatore di vita non proprio comoda e agiata. Un’idea molto distante dall’attuale lifestyle nelle nuove città cinesi, ricche di comfort, sempre più smart e in gradi di soddisfare una classe media che difficilmente proietterà il proprio futuro in una colonia della Patria in Africa, proprio ora poi, nel periodo di massima contestazione dell’ingerenza di Pechino sul continente africano.

POI CI SONO le città fantasma rimaste solo nella memoria di chi ha potuto viverle un tempo, prima che venissero trasfigurate e infine cancellate dal «modello cinese». Si tratta di città simbolo del paese come Pechino e Shanghai, i cui centri storici sono stati sventrati per creare quartieri rinnovati nell’edilizia, nell’ordine, nel decoro, finendo per annullare quella frenesia popolare che caratterizzava molte zone, veri e proprio quartieri con una vita e una storia propria, quasi sganciata dal resto della metropoli.

GLI HUTONG, stretti vicoli su cui si affacciano le siheyuan, le tradizionali case a cortile di Pechino o gli shikumen, le case di pietra con portoni solitamente neri tradizionali di Shanghai, sono ormai un vago ricordo. Ne restano ancora in piedi alcuni, soffocati dal progresso che circonda quelle zone attraverso grattacieli e costruzioni che sembrano guardare dentro quei residui storici, minacciandone con lo sguardo beffardo la sopravvivenza. Negli anni ’20 a Shanghai gli shikumen costituivano il 75 per cento della abitazioni. Oggi sono appena il 40% e come a Pechino per gli hutong molti sono stati trasformati in attrazione all’interno dei quartieri della movida della Parigi d’Oriente.
Si dirà che in Cina è tradizione per ogni dinastia distruggere quanto appartiene al passato per ribadire la propria potenza volta al futuro; o ancora alla necessità di ricostruire per via dei materiali, deperibili, utilizzati in passato.
Intanto, per ora, si tratta di un processo che pare inarrestabile, perché poi ci sono le città fantasma che appartengono a un passato più recente, ma che rischiano di fare la stessa fine delle antiche forme di Pechino e Shanghai, ovvero scomparire. Si tratta di quartieri, strade, vie, palazzi, luoghi di culto, uffici, costruiti da passati occupanti del paese e poi «alleati» che oggi rischiano di scomparire, diventando quindi solo uno sbiadito ricordo di qualche foto d’epoca.
Si tratta, ad esempio, delle città «russe» di Dalian e Harbin, nord ovest cinese. Luoghi ottenuti dall’Impero zarista durante la decadenza dell’ultima dinastia cinese e che nel corso del tempo, nonostante una temporanea occupazione giapponese, si sono sviluppati come parte integrante e simbolica della città cinese. Oggi quelle case, chiese, strutture, uffici, supermercati di impronta russa sono tutti contrassegnati da un medesimo carattere, inciso di rosso sulle facciate o sulle fiancate: «demolizione». Buttare giù e tirare su qualcosa di nuovo, qualcosa al passo con la nuova potenza globale cinese.

A DALIAN il quartiere russo ha perfino visto, di recente, una sua ristrutturazione. Durante il regno di Bo Xilai (il funzionario del partito comunista finito, anni dopo, in carcere perché ha tentato di usurpare il trono del partito comunista niente meno che all’attuale numero uno in carica, Xi Jinping), quella parte di città era stata recuperata; a quei palazzi si erano aggiunte nuove costruzioni volute nello stesso stile russo. Un luogo che aveva portato turisti e soldi nelle casse della Patria. Oggi invece lo si vuole morto, defunto sotto i colpi di picconi e scavatrici. Alcuni abitanti della città si sono opporti, una ong tanto a Dalian quanto ad Harbin, ha provato a organizzare anche una causa contro lo stato, ottenendo semplicemente una proroga. Il vecchiume in Cina non è mai stato apprezzato e, quindi, il destino è già scritto: anche quella parte di storia, segnale di invasioni e poi di amicizia tra Russia e Cina, sparirà.

AD HARBIN, nord ovest cinese, temperature rigide e vicinanza anche geografica con i vicini russi, è accaduta la stessa cosa. E dire che nel 1950 Mao visitò la città, oggi nota per le sue creazioni di ghiaccio, e decise che sarebbe dovuta diventare un importante snodo produttivo del paese. Vennero costruite fabbriche e appartamenti in pieno stile sovietico. Poi ci fu la rivoluzione culturale: l’80 per cento di chiese ortodosse (e di sinagoghe) venne distrutto dalle Guardie Rosse. Durante l’improvvido tsunami storico, la cattedrale di San Nicola venne completamente rasa al suolo. E forse per questo, a distanza di anni, la chiesa di Santa Sofia, rimasta simbolo per molto tempo del passato russo della città, è stata trasformata in un museo. Ma oggi, pur senza quella follia devastatrice, il business dell’edilizia e la necessità di cercare ovunque spazio per grattacieli e nuovi centri per i ricchi del paese, sta riportando indietro anche quel tentativo di recupero: tutto sarà nuovamente devastato.