Le due precedenti note apparse in questa rubrica, sono dedicate alla pittura di Oscar Ghiglia. Che nacque a Livorno nel 1876, che poco viaggiò (a Venezia nel 1909, e in Sardegna) e che sempre visse in Toscana tra Livorno e Firenze. Firenze, per la prima volta visitata a vent’anni e, poi, nel 1900 a frequentarvi la scuola di Giovanni Fattori con Amedeo Modigliani – Modigliani diceva, anni dopo, a Parigi, quanto a pittori, «in Italia c’è Oscar Ghiglia e basta». Finché a Firenze si trasferisce definitivamente nel 1902. E visse, tra 1913 e 1919, stabilmente a Castiglioncello, le spiagge e le rocce del mare livornese. Poi di nuovo a Firenze fino al 1945, anno della morte, che lo coglie a Prato.

La vita di Ghiglia si dipana intera, dunque, tra Firenze e quel brano di costa del Tirreno. Per quel che ne so, mai si è recato fuori d’Italia, ma la sua pittura, nonché irriducibile ai confini della regione, ha una levatura europea. Ho detto la sua pittura: penso ad alcune sue singole e precise opere, quelle e non altre del suo catalogo, una ventina, forse, a volerle contare. Ma venti opere sono sufficienti ad abundantiam per stabilire l’elevatezza e il grado della personalità di un pittore.

Tra queste, nelle due scorse note del «Divano», ne ho commentate quattro (sono esposte a Viareggio, presso la Fondazione Matteucci per l’Arte Moderna e, nel gennaio e febbraio del prossimo anno, saranno in mostra a Torino). Dico levatura europea di alcune opere, esiti eminenti di Ghiglia tra 1900 e 1925. Sta di fatto che il nome di Ghiglia è assai poco conosciuto e non di frequente appare, se appare, nelle storie dell’arte del 900. Il nome, ma le sue opere, anche, che è raro veder riprodotte o, quantomeno, citate nella pubblicistica critica corrente. Ghiglia ha tenuto un contegno solitario. Restio ad esporre.

A suo agio nella frequentazione di pochissimi e scelti sodali ed interlocutori. Due, tre fedeli collezionisti ai quali resta fedele. Della stima che lo circonda non si fa promotore. Lontano dalle mode, dai movimenti, dalle scuole. In questo suo contegno, se riconosci un tratto della sua grandezza, puoi ben individuare un motivo della ridotta attenzione per la sua ricerca tra gli studiosi, come la sua nessuna fama presso il cosiddetto grande pubblico.

Rifletto sulle considerazioni di Benedetto Croce che trascrivo da un suo Monito ai critici e storici dell’arte circa i ‘programmi’, le ‘scuole’ e i ‘movimenti’ in pittura. Mi paiono adeguate, oggi, ad arricchire una meditazione sulle vicende della pittura delle numerose «avanguardie». Ragionate con criterio non inerte, siano di viatico a chi voglia formulare pensieri esenti dalle vulgate dominanti e intenda approntare metodiche critiche non scontate, forse in anticipo consunte.

Croce stende queste osservazioni per i Quaderni della Critica del 1946-1947. «Dirò che una sorta d’impazienza e di rivolta mi prende quando leggo e odo discorrere con grande importanza del ‘movimento’ impressionistico, simbolistico, cubistico, futuristico o altro che sia». Con «quelle definizioni di scuole e i loro programmi, si additava una folla in cui stavano tutti insieme potenti e impotenti, uomini di genio e ciarlatani, gente seria e gente ridevole, e passando direttamente alle opere, ecco che scoprivo le singole personalità artistiche».

Così Croce si chiede »come mai accade che nella storiografia della poesia quello a cui solo si guarda sono le ‘personalità’ dei poeti, e nella storia della pittura, per contrario, tanto spazio prendono e tanto risalto ricevono i ‘movimenti collettivi’, i ‘nuovi indirizzi’, i ‘programmi’, le ‘rivoluzioni’ attuate o avviate, le ‘scuole’, e altrettali cose?». Argomenta che «i componenti delle scuole, che non attinsero l’originalità dell’opera, non contano; e taluno di essi che la raggiunse, per ciò stesso si trasse fuori o è da trarre fuori dalla scuola, come personalità e non già collettività». Così che, conclude, «nella critica e storia della pittura», non dobbiamo se non ricondurci «alle opere geniali e alle singole personalità: poche, pochissime, rare rispetto alla folla sterminata di opere e alle lunghe litanie di nomi, e che pure sono quel che solo vale».