Da piccola, Nalini Malani amava tantissimo guardare le figure che si formavano con le lanterne magiche; la sua meraviglia infantile scaturiva dalla musica e dalla tecnica segreta che muoveva i personaggi come fossero fantasmi in rapide apparizioni. Avrebbe voluto costruire anche lei quelle macchine per lo stupore, ma era solo una bambina e i suoi genitori non avevano molto tempo per lo svago: dovevano lavorare duro perché durante la Partizione dell’India del 1947 avevano passato il confine e si erano rifugiati a Calcutta per poi spostarsi a Bombay, in una triste condizione di esiliati. Così lei, senza perdersi d’animo, si ingegnava a ritrovare quelle ombre sul muro. Lo faceva in modo semplice, animando le sue stesse mani per dar vita a conigli e cervi.

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UNA VOLTA ADULTA, Malani non deve aver dimenticato quelle prime esperienze coinvolgenti. E come artista ha realizzato un suo gioco teatrale delle ombre, creando ambienti immersivi per lo spettatore dove poter navigare insieme in un universo multisensoriale, un mondo che immagina slittamenti temporali e accoglie una cronologia fluida affinché la storia possa entrare e uscire dalle sue pieghe, senza andare in una sola direzione, ma inventare traiettorie anomale. Recuperare quell’empatia genuina provata da bambina di fronte ai numerosi «abitanti» delle leggende sarà una strada maestra. «I miti sono idee universali, somigliano ad alberi compositi, come una palla di neve che rotola e va crescendo, stratificandosi – spiega l’artista nata a Karachi nel 1946 da madre sikh e padre teosofo -. Rappresentano una specie di grande compendio, in cui albergano molte verità che possono prorompere sul pascoscenico della nostra contemporaneità. In una figura come Cassandra e anche in altri personaggi sia greci che indiani, c’è una saggezza che si tramanda da secoli. Bisogna saper attingere a quella saggezza antica, senza distogliere lo sguardo. Se quelle idee contenute all’interno dei miti sono sopravvissute all’usura del tempo, arrivando fino a noi, ci dev’essere una ragione. Evidentemente, sono valide ancora oggi».
Il Castello di Rivoli diretto da Carolyn Christov Bakargiev ha appena inaugurato una grande mostra dedicata all’artista indiana Nalini Malani, dal titolo The Rebellion of the Dead / La rivolta dei morti. Retrospettiva 1969-2018. Part II: un’esposizione, a cura di Marcella Beccaria, nata in collaborazione con il Centre Pompidou che l’anno scorso ha ospitato il «pendant». In tutto, sfilano cinquant’anni di carriera tra Parigi e Rivoli (fino al 6 gennaio 2019), in una sequenza che non vuole seguire lo scorrere dei decenni, ma procede per grumi di memorie, affioramenti di traumi, rovesciamenti organici del corpo.

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ANCHE NEL MUSEO italiano Malani ha dato vita ai suoi monumentali wall drawing/erasure performance: il disegno è a termine, un giorno verrà cancellato e sparirà insieme alle sue raffinate iconografie e alle risonanze letterarie e storiche che aveva suscitato nello spettatore. In questo caso, si viaggia (visualmente) insieme al poeta Ramanujan fino alle «città invisibili» di Calvino. In mezzo a questa dinamica liquidità della Storia, così come la intende l’artista, s’intrufulano scene di brutalità quotidiana, un refrain nelle sue opere, soprattutto quando il soggetto è femminile. L’idea dei disegni e del loro svanire è collegata agli affreschi di Nathdwara. «Ho lavorato in questo modo per identificarmi con quegli artisti, è un mio tributo alla loro creatività».
Malani maneggia i contenuti scottanti della rimozione «raccontando» – e anche vivisezionando – con pannelli acquerellati (che per la loro grandezza rimandano ai vecchi «diorami») o con le ombre proiettate su dispositivi ruotanti, gli orrori di guerre, devastazioni, la furia omicida degli eserciti e, a ritroso, le profezie inascoltate di Cassandra (che sono rivisitate attraverso la tragedia liberatoria messa in scena nelle pagine di Christa Wolf).

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SIAMO IN QUEL LIMBO ondulato che scorre tra attuale e virtuale, cercandole stesse risposte che Bergson provava a formulare quando si scontrava con l’abisso del tempo e i suoi sfasamenti o ridondanze. Il perno concettuale dell’arte di Malani è in questo détournement infaticabile. Déja vu, illusioni ottiche e psichiche, immagini allo specchio: la lanterna magica, in quel suo pre-cinema emozionale narra attraverso l’erranza la Storia. Eppure tutto torna sotto forma di eterno presente. Anche l’immagine-ricordo. O l’immagine-tempo, il «fantasma che ossessiona il cinema» trasportandolo altrove, così finemente scandagliata da Gilles Deleuze nei suoi scritti.
«C’è una parte della società che rimuove figure simboliche come Cassandra e Medea e un’altra che invece tira fuori verità dalle religioni e credenze del passato: dovrebbero condividere le loro conoscenze perché è la società che rifiuta di vedere ad essere problematica, a compiere una regressione che conduce solo al deflagrare dei conflitti e della violenza», dice Nalini Malani, insistendo sul valore della comunicazione ed empatia fra esseri umani. In fondo, lo spettatore che varca la soglia di un museo e guarda i lavori dell’autrice, perde la sua innocenza. Si trova catapultato all’interno di una triangolazione: l’artista, l’opera e lui stesso. «L’essenza dell’arte è creare una rete di relazioni».
Quella di Malani è una visione dialogica, dove l’attivazione dei sensi – anche nell’opposizione di piacere e disgusto – è necessaria alla formazione di una coscienza collettiva. Chiunque guardi le forme fluttuanti che circolano nei suoi lavori può costruire la sua personale percezione, in realtà dietro alla esperienza di ogni singolo visitatore, c’è un vastissimo patrimonio culturale archetipico.
Nella sala 36 del Castello di Rivoli va in onda – su più schermi – Mother India: Transactions in the Construction of Pain (2005). È una potentissima installazione-video sulle distorsioni prodotte dai nazionalismi e su come il potere per autolegittimarsi si fondi spesso sulla sottrazione del corpo delle donne. Non può esserci un’India post-coloniale che procede verso un suo luminoso futuro, di pari passo agli stupri e i femminicidi che costellano sanguinosamente la cronaca.

GIÀ NEGLI ANNI NOVANTA, l’artista con il suo multimediale Medeaprojekt si inserì in un momento drammatico del suo paese, che raggiunse il picco di conflitti etnici fino alla distruzione della moschea Babri da parte dei fondamentalisti indù. Eppure Malani tornò in India nel 1973, dopo lo studio della filosofia a Parigi con Althusser e Barthes. Per lei, quel viaggio a ritroso era stato un atto di consapevolezza laica. Un «rientro» politico per lavorare sulla decolonizzazione dell’immaginario.