«Un giorno tornerà l’erba, torneranno i prati e tutto quello che abbiamo patito non sembrerà nemmeno vero …». Lo dice parlando con gli occhi fissi all’obiettivo, come in una vecchia fotografia un po’ sbiadita. È stanco quell’uomo, e non ha più storie da raccontare, poco prima altri come lui, sempre guardandoci diritto in faccia, ci hanno detto di vite passate nelle miniere d’Europa, tra Francia e Belgio, e di famiglie lasciate troppo presto tanto da avere perduto i contorni dei loro visi. Di rancori amari, rabbiosi come l’istante di chi tornando a casa si scopre tradito dall’amata. Di desideri semplici, vedere crescere i propri figli e rimanere al mondo. Vengono da lontano quegli uomini stracciati, febbricitanti, con gli animi feriti, e aspettano, sospesi nel silenzio di una neve bianchissima, quasi irreale, che li avvolge sopra e sotto al cielo.

Torneranno i prati è il nuovo film di Ermanno Olmi – da giovedì in sala, oggi in anteprima in cento paesi – che il regista ha girato sull’Altopiano di Asiago, dove vive, sfidando un inverno ghiacciato insieme agli attori e alla troupe perché di quello che raccontava voleva che si sentisse anche la fisicità dei luoghi e della fatica. E però non è questo, non solo almeno, che da al film la sua verità. Si parla della Prima guerra mondiale, nel centenario dell’inizio, ma Olmi (sua la sceneggiatura mentre alla regia ha collaborato Maurizio Zaccaro), che ha lavorato ispirandosi al libro di Federico De Roberto, agli archivi, alle lettere dei soldati, da quella trincea scavata in mezzo ai boschi, e in mezzo al nulla, allarga lo sguardo alla condizione umana, al nostro contemporaneo fragile di violenza, all’assurdità di ogni conflitto perché se si muore si muore davvero e all’improvviso tutto quello per cui accade appare privo di senso, svuotato di logica, negato come il futuro di quel tempo fermo, che si declina soltanto al presente: qui e ora.

Dopo non c’è più nulla, non ci sono più i sogni, non ci sono più gli ideali, non serve a niente la giustizia come commenta il capitano prima di strapparsi i gradi, ribellandosi a «ordini criminali» per salvare i suoi uomini, e sparire così dal quadro. E non c’è nemmeno dio, che non si è «scomodato» manco per il figlio morto in croce, la morte si sconfigge restituendo alle vite perdute una voce, una storia, una memoria.
Siamo in trincea, la neve ha permesso una tregua, e nonostante i malanni – è un’influenza balcanica dirà il maggiore ben vestito e nutrito arrivato lassù per portare nuovi ordini – gli uomini al fronte sono quasi contenti del freddo che rende tutto impossibile, anche la guerra. Finché non ritorna il soldato col rancio, le lettere da casa e insieme a lui il rombo dei cannoni …

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Al comando vogliono aprire un nuovo avamposto per le comunicazioni, quello che c’è è stato intercettato dagli austriaci che stanno preparando una grossa offensiva lì a nordest. Il comando chiede al capitano di mandare su, verso la cima, i suoi soldati, ma quei pochi passi nella neve sarebbero letali, i cecchini non lasciano scampo e la notte, perché vogliono che sia fatto entro mezz’ora, è limpida di luna. Il primo muore, il secondo anche, il terzo chiede di pisciare perché anche alle bestie al macello si concede di farlo prima di morire. Chi ha dato gli ordini stava seduto in ufficio comodamente, a prendersi le pallottole sono altri, poveracci che non hanno scelta … È questa qui la guerra? E quando il giovane tenentino prende il comando, i suoi studi e le sue speranze in poco più di un’ora sembrano svanire sotto le bombe come la sua giovinezza e quella di tanti altri, chi muore e chi sopravviverà e quella morte se la porterà dentro per sempre.

Sui bordi delle immagini gelate (nella fotografia densa di Fabio Olmi), Olmi illumina dunque quella Storia che stride con l’«ufficiale» di celebrazioni e atti eroici, e guarda invece nella vita (e nella morte) delle persone, negli istanti della loro paura e nei desideri di felicità, in quell’esercizio di sopravvivenza che per qualcuno è riuscire ancora a stupirsi di fronte a un albero di licheno immaginando le sue foglie dorate nell’autunno.

Lui la guerra l’ha conosciuta dai racconti del padre, c’era nei personaggi dei Recuperanti, il suo film del 1970 di cui ritroviamo il rimando al pastore Toni Lunardo con la sua saggezza antica che «la guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai». Dentro all’avamposto che di quel mondo sembra essere l’essenza, concentrata nel silenzio assordante dell’attesa, Olmi ci parla anche dell’Italia di cent’anni fa, contadina, e analfabeta, di una guerra di classe che a morire mandava chi era povero, di un Paese fatto da tante lingue che si mischiano in uno spazio stretto dove l’unità diventa reciproca compassione.

I suoi soldati sembrano fantasmi, ombre che scivolano nel biancore di una memoria che li ha offuscati, e che all’improvviso invece trovano di nuovo vita dicendoci che non è la «guerra di trincea» come si è definita la Prima guerra mondiale, ma un massacro feroce in cui il secolo appena nato perde anch’esso la spensieratezza nel trauma che lo segnerà per sempre. Il tempo si dilata, la notte che è quando si svolgono i fatti diventa infinita pur non essendoci nessun orizzonte, Olmi non esce mai dalla trincea, come i soldati; il tempo è un fruscio nel silenzio che permette di intuire l’attacco, è una canzone napoletana che da un momento di gioia, ma adesso anche quella tace perché non si canta se il cuore non è contento. Cosa rimane è dolore, corpi senza vita, la polvere che sembra coprire già tutto prima che sia finito. Così che quel torneranno i prati del titolo, più che un augurio appare come la condanna, la consapevolezza dell’oblio.

Ma qui è anche la sfida di Olmi, che con commuovente delicatezza ci interroga, e interroga il mondo; nel corpo a corpo diretto, modulato dal respiro del montaggio di Paolo Cottignola e della musica di Paolo Fresu, con l’idea di una Storia non ci sono risposte rassicuranti, alle superfici piane lui predilige le pieghe, i risvolti dei vissuti, di morti che hanno un volto, una parola, e solo così ci possono dire cosa è una guerra, col suo tempo immobile come la morte, a cui Olmi lascia solo qualche piccolo punto di fuga di chi esce verso l’ignoto dal quadro. Il tempo quegli uomini li ha immobilizzati lì, il cinema ne riscrive la storia viva in questa magnifica «lezione» di umanità.