I «marginali» di cui ci parla lo storico inglese David Forgacs nel suo Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi, appena uscito da Laterza (pp. 370, euro 26), sono noti all’opinione pubblica, come del resto lo sono agli studiosi (storici, sociologi, psicologi e psichiatri, criminologi, antropologi, urbanisti) che da anni li «indagando» da molteplici punti di vista: sono gli altri da noi, sono coloro che vivono nell’ombra, ombre loro stessi (come li definivano Alessandro Dal Lago ed Emilio Quadrelli in un bel saggio di alcuni anni fa, La città e le ombre), sono l’oscurità che assolve le nostre così diverse esistenze di uomini e donne che abitano alla luce del sole, al centro della vita, della società, delle città. Sono la «turbolenza quotidiana» (per usare un’altra espressione di Dal Lago e Quadrelli) che passa accanto alle nostre quotidiane abitudini, sfiorandole eppure scuotendole, ma al contempo rassicurandole: ci sentiamo al centro della vita proprio perché qualcuno ne occupa i margini, senza i quali non esisterebbe più neppure un centro. Sono anche gli «infami» di cui parlava Michel Foucault, prostitute, spacciatori, piccoli malavitosi, miserabili di ogni tipo; innocenti o colpevoli, sono quello che ognuno di noi potrebbe essere, essere stato o diventare.

Un problema di senso comune

Margini d’Italia sembra rappresentare però un’importante novità, all’interno del vasto contesto bibliografico di riferimento. A Forgacs non interessano tanto i «margini» come tali, bensì come sintomo e frutto delle relazioni di potere sociale. Nessun individuo è marginale, osserva Forgacs, fino a quando qualcun altro non lo connoti come tale; né esistono luoghi o individui che possano dirsi collocati ai margini in se stessi, se non in relazione al punto di vista di chi li osservi da un supposto centro, che a sua volta potrebbe diventare un margine invertendo le posizioni. In altre parole, i margini non esistono in natura ma solo per effetto di costruzioni artificiali e culturali, di parole e di sguardi (per effetto di una «costruzione discorsiva», avrebbe detto Foucault, che infatti Forgacs cita espressamente a questo proposito): e sono queste costruzioni, questi sguardi a costituire qui l’oggetto dell’indagine. Ciò che Margini d’Italia indaga è il modo nel quale, dall’Unità in avanti, l’Italia ha edificato i propri, di margini; e l’indagine è svolta attraverso quegli strumenti di osservazione che tipicamente contribuiscono a costruire il senso comune di qualunque nazione, e cioè la letteratura, gli organi d’informazione e la fotografia.

In particolare, Forgacs si concentra su cinque casi: le periferie urbane, le colonie, il meridione, i manicomi e i campi nomadi. Naturalmente ogni caso ha caratteristiche diverse, e molte delle considerazioni che valgono sull’uno non valgono sugli altri, ma tutti «sono strettamente intrecciati all’interno di una sola formazione discorsiva dove si influenzano e rafforzano a vicenda». Esiste un legame che tiene insieme ciascuno dei margini prescelti, ed è lo sguardo che da sempre si posa su di loro: uno sguardo a volte malevolo e fuorviante (basti pensare al trattamento ricevuto sui mass media dai rom), altre benevolo o addirittura solidale, ma comunque sempre «etnocentrico» e squilibrato, indipendentemente dalle intenzioni dell’osservatore. Erano mossi dalle migliori intenzioni, ad esempio, i fotografi, i giornalisti e gli studiosi che per la prima volta, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, avevano squarciato il velo della realtà manicomiale, mostrandola all’opinione pubblica nella sua nuda essenza (tramite libri come Morire di classe, a cura di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, o Gli esclusi di Luciano D’Alessandro); e tuttavia anche il loro sguardo, secondo Forgacs, rifletteva la struttura asimmetrica delle relazioni fra osservatori e osservati.

False rappresentazioni

Commentando alcune immagini di un film girato dal fotografo francese Raymond Depardon nell’ospedale psichiatrico di San Clemente a Venezia, nelle quali un uomo cammina senza pantaloni e una donna fa visita al marito e «lo imbocca con un pezzo di torta e lo pulisce, mentre lui tossisce e sbava», Forgacs si chiede «in quale altro posto, in Italia in quel momento, se non in un ospedale psichiatrico, un adulto avrebbe potuto puntare una macchina da presa nascosta in questo modo su altri adulti che non conosceva senza suscitare una qualche reazione all’invasione della privacy». Anche quando era solidale ed empatico nelle intenzioni che lo generavano, dunque, lo sguardo dell’osservatore rischiava poi di risultare invadente nei fatti, e perciò quasi violento, anche solo per la ragione che l’osservato non avrebbe potuto sottrarvisi neppure volendolo; e se da un lato «le parole o le immagini delle persone ai margini» rimanevano infine «incorniciate o contenute nelle parole, o nello sguardo, dell’autore e dalle aspettative del pubblico» al quale quelle testimonianze erano destinate, da un altro lato il «marginale» finiva con il veder semplicemente consolidata la rappresentazione della propria marginalità.

A parere di Forgacs, lo studioso probabilmente più consapevole dei pericoli «marginalizzanti» implicati da qualunque prospettiva culturale è stato Ernesto De Martino, autore di fondamentali ricerche sull’Italia meridionale e sulle sue pratiche magiche e religiose. «A me sembra – scrive Forgacs – che De Martino non abbia mai preteso di fare nulla di più che … indurre nell’etnografo una autoconsapevolezza critica», ma è già molto: «non è possibile invertire la visione verso i margini perché le relazioni di potere che hanno costruito i margini come tali non sono invertibili», e «quello a cui possiamo aspirare è una comprensione critica di queste relazioni di potere e della nostra posizione al loro interno». Lo stesso Forgacs dà atto che lo scopo di Margini d’Italia è «contribuire a tale comprensione»; e non solo lo scopo è raggiunto, si può osservare, ma il risultato è anche perturbante, rispetto alle nostre solide e benpensanti certezze.