Di fronte al rigore di un’analisi come questa di Gianni De Michelis, ministro degli Esteri dal 1989 al 1992, sarebbe istruttivo contare le parole e le frasi che Matteo Renzi ha dedicato ai temi internazionali nel recente discorso d’investitura in parlamento (La lezione della storia. Sul futuro dell’Italia e le prospettive dell’Europa di Gianni De Michelis, con Francesco Kostner, Marsilio, pp. 254, euro 16). Lasciando da parte l’Europa, trattata del resto come un guardiano o un interlocutore per la politica economica interna e mai come un soggetto di politica sulla scena globale, al più ci sarà stato un accenno ai marò per strappare all’aula un applauso a buon mercato. Si potrebbe partire da recriminazioni tipo tempora e mores, ma lo scarto fra De Michelis e Renzi riflette un degrado del discorso, inversamente proporzionale all’importanza dei problemi mondiali, che va al di là dei singoli. De Michelis direbbe che si fatica a cogliere il mutamento di paradigma.

Dopo la guerra fredda

Il libro di De Michelis parla di Italia e di Europa sullo sfondo del mondo e della storia del mondo. I parametri sono persino troppo vasti, ben oltre le sua specializzazione di politico e studioso di politica internazionale, perché vengono coinvolte discipline come la demografia, l’antropologia, le finanze, la sociologia. Anche a giudicare dalla bibliografia, comunque, lo appassiona soprattutto la politologia. Una maggiore predisposizione per la storia lo porterebbe a privilegiare l’unicità dei fatti e delle dinamiche, come dall’insegnamento di Braudel, più che la ripetibilità delle situazioni. In ogni modo, grazie all’esperienza personale e alla competenza, e perché no all’ambizione, la sua lettura delle crisi che si sono succedute dal 1989 a oggi spicca nel panorama grigiastro a cui si riduce da noi il cosiddetto dibattito di politica estera se si fa astrazione dalle sedi deputate come Ispi, Iai, Aspenia e Ipalmo, di cui lo stesso De Michelis tiene da qualche anno la presidenza.

Il focus è sulla fine della guerra fredda e il sistema che ne è seguito. Senza forzare qui un’interpretazione che naturalmente è complessa e a più facce, De Michelis dà agli Usa quello che è degli Usa ma ritiene che alla fine i presidenti che si sono succeduti alla Casa Bianca non hanno soddisfatto la responsabilità somma della potenze egemone di costruire quel «nuovo ordine mondiale» che Bush senior annunciò orgogliosamente davanti al collasso del nemico storico.

Ci sono intuizioni brillanti, omissioni e contraddizioni. Se è vero che l’Europa è chiamata dalla storia e dalla geografia a fare le sue scelte cruciali verso Est (la Russia) e verso Sud (l’area arabo-islamica), ci si aspetterebbe più fair play sui «diritti» e persino gli «interessi» delle controparti. Imputare a Bush senior l’errore di non aver ordinato alle forze armate americane (nominalmente dell’Onu) di entrare a Baghdad in quei giorni fatidici del 1991 significa in sostanza auspicare che il passaggio al dopo-guerra fredda si traducesse ipso facto in un overkilling dell’Urss, di quel poco o tanto di orgoglio rimasto agli arabi, delle Nazioni Unite e della legalità. Per coerenza infatti Gianni De Michelis si spinge fino a definire «necessaria» una guerra – l’invasione anglo-americana dell’Iraq nel 2003 – che tutti ormai vituperano.

In chiaroscuro è anche la ricostruzione dell’allargamento di Europa e Nato in Europa fino ai confini della Russia. L’ultimo scotto di una politica che ha alternato operazioni che oggettivamente hanno favorito la stabilità e vere e proprie provocazioni è la crisi in Ucraina. A giudicare dalla riapertura in atto di una seconda o terza guerra fredda, con tanto di rievocazione di un Est e di un Ovest di difficile conio dopo la sostanziale affermazione del mercato ovunque, vien da pensare che la narrazione che De Michelis fa sia degli eventi sia delle tendenze che derivano da quegli eventi abbia perso per strada qualche passaggio decisivo. La realtà sembra dire che dopo aver sconfitto l’Urss la Nato – o quell’Occidente che secondo De Michelis come concetto sarebbe finito per sempre da un pezzo – si proponga di distruggere o «contenere» la Russia quasi settant’anni dopo Kennan e non già, come immagina De Michelis, di elevarla a partner nella gestione del sistema.

Miopia sulla Jugoslavia

Forse De Michelis avrebbe potuto essere meno elusivo sullo sfacelo della Jugoslavia. Non bastano quelle due paginette per certificare come sia fallito il salvataggio dell’unità della creatura di Tito malgrado la Quadrangolare ideata dallo stesso De Michelis proprio per evitare il peggio. Michele Valensise riconosce nella prefazione il flop dell’Europa: siccome Valensise è un pezzo grosso della Farnesina, diplomaticamente scrive che l’Europa perse «un’occasione preziosa». Sembra di capire che Milosevic avesse capito meglio del ministro De Michelis che il croato Mesic non avrebbe arrestato la serie di secessioni. Forze potenti miravano alla dissoluzione della Jugoslavia. De Michelis, che fu in qualche modo l’ideatore di una componente centro-orientale nella politica europea dell’Italia, sopravvalutò la possibilità che una presidenza croata riuscisse a sedare lo scontro in atto fra piccoli e grandi? O sopravvalutò se stesso e il ruolo effettivo dell’Italia?

L’errore potrebbe trovarsi in un refrain che ritorna spesso nel libro (e nella politica estera dell’Italia): la convinzione che la nostra credibilità a livello internazionale non stia nell’elaborare una politica ma nel mandare qualche aereo e un po’ di soldati quando i nostro alleati senza consultarci passano dalla politica alla guerra.