Per fronteggiare le violenze contro la donna sono state introdotte nell’anno in corso nuove norme (decreto legge n.93 convertito in legge n.119), espressione di uno Stato amico, che, oltre a punire e a prevenire con più severità e impegno, mostra di voler agevolare un suo ruolo trainante nel processo penale, valorizzando e tutelando il suo sapere di vittima. Nella giurisprudenza risalente al secolo scorso sulla violenza sessuale prendeva sovente corpo l’idea che la vittima, nelle pieghe più intime del suo volere, avesse accettato il contatto, provocandolo e/o non esercitando la prudenza e la resistenza che nel contesto (preannunciata brama dell’uomo, scelta del luogo, abito indossato) le avrebbero consentito di evitare l’evento.

L’universale colpevolezza morale della vittima della violenza è messa in luce da Leonardo Sciascia in «1012+1». Egli parte dalla prova regina (l’illibatezza perduta) che veniva invocata dalla difesa, nei processi all’inizio del secolo precedente, qualora la tesi dell’accusa si fondasse sulla violata verginità: «Ovviamente, benché il codice vi sorvolasse, la condizione di “illibata”, era in processi simili una specie di consuetudinario sine qua non, il punto di vantaggio della querelante: e da ciò le umilianti visite mediche, d’ufficio e di parte, a certificarne l’illibatezza prima del fatto e perduta; e quando perduta. L’illibatezza, dunque: e quando non se ne faceva questione, la violenza non producendo quel danno, la sorte del processo si presentava così dubbiosa e discreditante, che le violentate – e i loro familiari specialmente – preferivano lasciar perdere ogni tentativo di rivalsa. Quasi una regola: e c’è da credere che la si osservi ancora».

Ho già rilevato il superamento del vecchio principio unus testis nullus testis, nel senso che la moderna giurisprudenza ritiene che parte lesa non presenta un’affidabilità ridotta ,per cui ,dopo il positivo controllo sulle sue capacità percettive e mnemoniche, le sue dichiarazioni, da sole, possono costituire la base su cui fondare l’affermazione di responsabilità penale.

Seguendo la direttiva comunitaria per l’ emanazione di «norme minime» di tutela della vittima all’interno del procedimento penale, la legge n.119 dell’ottobre 2013 ha modificato l’art. 498 c.p.p. estendendo al delitto di maltrattamenti in famiglia le modalità di protezione del teste minorenne di cui al comma 4 ter (rappresentate dall’uso del vetro-specchio, unitamente ad un impianto citofonico, già previsto per la violenza sessuale e per lo stalking) e, se la persona offesa è maggiorenne, il giudice può disporre, a richiesta della persona offesa o del suo difensore, l’adozione di modalità protette. Comunque generalmente assicura che l’esame venga condotto tenendo conto della particolare vulnerabilità della persona offesa, desunta anche dal tipo di reato per cui si procede. Come correttamente rilevato dalla dottrina (Iasevoli), l’intreccio normativo si sostanzia nel riconoscimento giuridico del concetto di vulnerabilità della fonte del sapere giudiziario e della necessità di una sua eccezionale protezione .

Sempre in linea con il razionale riconoscimento della vulnerabilità della vittima del reato di stalking alle pressioni e ai condizionamenti provenienti dall’imputato e dal sua ambiente sociale e familiare, il decreto legge aveva stabilito l’irrevocabilità della querela. In sede di conversione in legge si è tornati alla sua revocabilità, sia pure attenuata dal compromesso costituito a)dalla creazione della irrevocabilità eccezionale (nel caso di reato commesso mediante minacce ripetute, gravi o realizzate da più persone o con armi, con scritti anonimi); b) dalla sua blindata modalità (deve essere esclusivamente processuale, con atto esplicito e formale, escludendo l’ipotesi di remissione tacita che potrebbe porre il quesito sulla rilevanza di rappacificazioni, ricongiungimenti , transazione e risarcimento del danno).

Per meglio intendere in quale terreno scivoloso possa svolgersi l’esame del giudice sulla sussistenza o meno di una remissione tacita in reati che nascano in un contesto di affettività e di intimità interpersonali, può essere utile il richiamo a un’antica sentenza che per quanto relativa ad un reato abrogato (l’adulterio), esprime l’impropria esplorazione che il giudice penale è chiamato a compiere nella ricerca della remissione extra moenia, all’interno di una coppia in crisi. Il giudice escluse che avesse fatto remissione tacita di querela «il marito che, ripresa in casa la moglie al fine di ridare la madre ai figli, ha con essa sporadici rapporti carnali …in quanto l’unione carnale può essere determinata da un bisogno puramente fisico che prescinde da una consapevole volontà di perdonare»(trib. Milano, 12 giugno 1969).

Se comunque il ripristino della revocabilità della querela nel reato di stalking è condizionato dal suo verificarsi nello scenario processuale, onde consentire all’autorità giudiziaria di effettuare la più attenta verifica sulla spontaneità e libertà morale della querelante ricreduta, va ricordato che è remissione processuale non solo quella compiuta davanti al giudice, ma anche quella fatta a mezzo di procuratore speciale, con dichiarazione ricevuta da un ufficiale di polizia giudiziaria. L’omessa considerazione di questa ampia dimensione della remissione processuale e della non uniforme possibilità di controllo diretto ed immediato da parte del giudice, depotenzia notevolmente il carattere blindato della tutela della parte fragile e condizionabile. Comunque rimane il dato positivo che la persona offesa deve esprimere la rinuncia alla punizione dell’aggressore con un atto, che, pur privo di formula sacramentale, sia chiaro e netto, senza che il giudice odierno debba inserirsi nella sfera domestica e intima della coppia in fase di conflittualità (tanto più che l’ipotesi aggravata di atti persecutori è stata estesa, dalla legge di conversione, anche al reato commesso in costanza di relazione affettiva).