L’Europa guarda verso il centro-destra. Questa è quanto si ricava dalla lettura dei risultati della survey La conversione degli europei ai valori di destra, dove si analizza l’auto-collocazione politica sull’asse destra-sinistra in quattro paesi europei: Francia, Germania, Italia e Regno Unito. Si tratta delle “grandi democrazie europee” – Germania, Francia e Italia sono i primi tre paesi più popolosi dell’Ue a 27 – non di piccoli paesi periferici o marginali.

La maggioranza relativa degli intervistati si colloca tra le posizioni 6-10 della scala sinistra-destra. L’Italia è il paese più “polarizzato”: il 44% degli italiani si descrive di destra (31% di sinistra), contro il 40% dei britannici (25% di sinistra), il 38% dei francesi (24% di sinistra) e il 36% dei tedeschi (26% di sinistra). Ma quali significati, valori e priorità si associano a questa auto-collocazione?

I risultati sono piuttosto interessanti, anche se non sorprendenti, e corrispondono alla tesi centrale dell’ultimo lavoro di Marco D’Eramo, Dominio. Il neo-liberalismo è diventato – grazie a strategie intenzionali e coordinate di egemonia – la mappa simbolica che permette di navigare nel mondo, il sistema di senso che ordina e gerarchizza bisogni, criteri di giustizia, valori e catene mezzi-fini.

Ciò emerge dalla diffusa predominanza della responsabilità individuale, con al centro lo “spirito del progetto” e l’individuo artefice unico del proprio destino. Successi, fallimenti, esiti fausti e infausti sono nelle mani dei soggetti, del loro impegno individuale, sforzo pro-attivo e intenzionalità.

La maggioranza assoluta dei rispondenti crede che «le persone possono cambiare la società attraverso le loro scelte e azioni» (80%), che «le persone nel (loro) paese hanno la possibilità di scegliere il proprio percorso di vita» (69%). Infine, il 67% degli intervistati crede che «con lo sforzo chiunque possa avere successo». A questa attribuzione di potere alle scelte individuali corrisponde l’idea – sostenuta dal 55% degli intervistati – che «i disoccupati potrebbero trovare lavoro se lo volessero davvero». Visione, questa, trasversale all’auto-collocazione politica, dal momento che il 58% degli intervistati che si riconosce nel segmento di centro-sinistra della scala si dice in accordo con questa affermazione (contro il 71% di chi si autodefinisce di centro-destra).

Il “nuovo spirito del capitalismo” – come definito da Luc Boltanski e Eve Chiappello – basato sulla pervasività della cultura del progetto individuale, è diventato la riserva morale cui le persone attingono per giustificare la propria collocazione e traiettoria socio-economica Qui sta il cuore del modello neo-liberale: non solo o non tanto la diffusione del mercato competitivo e dei prezzi come criterio per la produzione e distribuzione di beni e servizi. Neppure la privatizzazione dei servizi pubblici o l’espansione dell’impresa finanziarizzata. Questo è il neo-liberalismo dei manuali e delle ricette di policy, che si presenta poi come “neo-liberalismo reale” sotto forma di scelte politiche che favoriscono la concentrazione del potere in pochi grandi player e nell’asimmetria sempre più marcata tra capitale e lavoro.

La sua essenza più profonda risiede nella cancellazione di ogni dimensione collettiva della società: dai corpi intermedi, agli spazi comuni e condivisi, alla dimensione politico-associativa delle vita pubblica, fino alle articolazioni simboliche che strutturano la responsabilità condivisa. Il paradosso è che questo “nuovo spirito del capitalismo” basato sulla responsabilità individuale ha radici nell’eredità dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta, che combinavano “critica sociale” e “critica artistica” alla luce dell’autonomia dell’individuo. Più tardi, abbandonate le istanze della “critica sociale” relative alla distribuzione dei poteri e dei diritti di proprietà, la “critica artistica” basata sul primato della soggettività è stata assorbita dal neo-liberalismo come fattore di adattamento del capitalismo e delle sue dimensioni istituzionali.

Così, le politiche di attivazione si sono ridotte ad aiuti condizionati volti a sviluppare prima di tutto la responsabilità individuale dei disoccupati, senza considerare le strategie delle imprese e le caratteristiche dei posti di lavoro. Sul mercato, i vissuti di chi ce la fa ricalcano quelli dell’individuo “per eccesso”, del vincitore che ritiene di essersi fatto da solo grazie a capacità personali del tutto sganciate dalle risorse collettive e alla portata di tutti. Promesse, queste, che si sono scontrate con la realtà di un mondo non caratterizzato dai mercati contendibili del neo-liberalismo dei manuali, ma dalla presenza di oligopoli, rendite, bisogni insoddisfatti e mercati “pigliatutto”, complementari alla diffusione del fallimento, della mobilità bloccata e delle aspettative frustrate. In ambienti economici di questo tipo, l’ubiquità della responsabilità individuale nutre la proliferazione di individui “per difetto”: donne e uomini che vivono la loro soggettività in negativo, come mancanza, imperfezione o colpa rispetto alle mete non realizzate. In questo vuoto di responsabilità collettiva, la rabbia che ne deriva si scarica verso la ricerca di capri espiatori.

Non stupisce, quindi, che la ricerca registri la proliferazione di sentimenti di chiusura verso i processi migratori (56%) e il sostegno all’idea che i benefici di welfare siano goduti da persone che non contribuiscono al suo funzionamento.

@FilBarbera