«New York? È diventata una noia. Gli affitti sono troppo alti per fare i bohemien. I giovani non sono più in grado di trasferirsi qui. È quello che è accaduto a Parigi. Se i giovani non riescono ad andare in un posto, è destinato a morire».
Queste parole taglienti appartengono all’artista David Hockney, britannico, ma con diverse esperienze artistiche nella Grande Mela. La parola «noia» e New York forse non dovrebbero mai comparire nella stessa frase, ma il ricordo di anni in cui la città che non dorme mai era il cuore pulsante di ogni fenomeno d’avanguardia e la culla di artisti, provocatori, mode e ribellioni oggi è più vivo che mai. Nel mondo della musica e dell’arte tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta la Grande Mela diventò un luogo del possibile e dell’immaginario, dove i locali erano laboratori di creatività, oasi di trasgressione, sedi di incontri improbabili e dove nascevano scandali e miti in egual misura. Quella New York selvaggia e avventurosa, immortalata in innumerevoli film e serie televisive, è diventata un ricordo collettivo e la malinconia per quella intensissima stagione oggi appartiene anche a chi nella città dei cinque quartieri probabilmente non ci ha messo mai piede.

L’epopea è stata di recente rievocata da una serie di libri che raccontano quegli anni ruggenti in cui New York era tumultuosa, pericolosa, febbrile, decadente e eccezionalmente viva. Uno di questi è The Mudd Club (Feral House), che narra la storia dell’omonimo locale che ebbe una vita breve e leggendaria.

A far rivivere l’atmosfera in parole e immagini è Richard Boch, oggi artista e pittore, che lavorò alla porta del club nel suo periodo d’oro. Boch era un «doorman», non un semplice buttafuori, ma uno spietato selezionatore che aveva facoltà di scegliere chi far entrare e chi tenere in coda. Il club era piccolo e seminascosto, situato nell’area di TriBeCa. Divenne nei pochi anni di vita dal 1978 al 1983 un tempio della controcultura e dell’arte. Mecca della musica underground, culla di nuovi generi musicali e luogo dove si potevano incontrare scrittori come Allen Ginsberg e William Burroughs, artisti come Keith Haring, Jean-Michel Basquiat, Andy Warhol e stilisti come Anna Sui e Jasper Conran. E ovviamente un’infinità di musicisti, molti dei quali si esibivano sul palco: Lou Reed, John Cale, David Bowie, Johnny Thunders, David Byrne, Debbie Harry, Arto Lindsay, John Lurie, Nico, Lydia Lunch, gli X, i Cramps, i B-52’s e persino Madonna, che ai tempi faceva coppia con Basquiat.

«New York City era in un turbinio di caos ed era sull’orlo della rovina – ci racconta Richard Boch -. Nonostante tutto c’era un incredibile senso di libertà e di energia. A quell’epoca, senza internet, dovevi uscire tutte le sere per vedere quello che stava accadendo. Il Mudd Club era al centro di quel mondo».

A pochi mesi dall’apertura, la rivista People scrisse che non si era visto «niente di così eccentrico dai tempi dei cabaret della Berlino anni Venti». Le code fuori dal locale crebbero a dismisura. Boch aveva l’ordine di far aspettare tutti, soprattutto le celebrità. «Paul Simon – ricorda – si presentò malissimo. Invece di salutarmi mi disse, ’Ma non sai chi sono io?’. Non entrò». Così il cantante che a Central Park radunava mezzo milione di fan, al Mudd Club rimaneva alla porta. Boch disse di no anche a Meat Loaf, ma a David Bowie non riuscì a negare l’ingresso. «Era un vero gentleman», racconta il «doorman».

SOLO LEI

Grandi star e donne di fascino. Tra tutte Anita Pallenberg, la modella e stilista italo tedesca che fu compagna e musa di Keith Richards (che la soffiò a Brian Jones): «Intelligente, brillante, divertente, conosceva Marlon Brando e Stanley Kubrick, era come nessuno che avessi conosciuto fino ad allora». La musica era parte integrante dell’energia del club, le scene punk, underground, no wave e l’hip hop degli albori erano il piatto forte della programmazione. Alcuni concerti sono rimasti impressi nella memoria di Boch: «Era una notte d’estate dell’agosto 1979. I Talking Heads fecero un concerto che doveva essere ripreso dalla Bbc. Tra il pubblico c’erano solo amici della band e amici del club e, ovviamente, io feci entrare un po’ di amici miei. La band fu incredibile e se chiudo gli occhi posso ancora vederli sul palco. Era una di quelle notti che ti fa capire che non c’è nulla come vivere a NYC». Celebrità, musica, arte, ma anche droga. «Era parte della scena – ammette Richard -. Alimentava la creatività di artisti e performer. Ma ben presto la situazione divenne fuori controllo. Tutti uscivamo la sera e stavamo fuori fino all’alba. Tornavamo a casa e facevamo film, musica, quadri. La droga era parte dell’equazione. Il crollo era inevitabile. Molti non sono sopravvissuti».

L’epopea del Mudd Club durò poco. Ma più che la droga poterono i milioni dei palazzinari. Continua: «Intorno al 1983 i soldi degli immobiliaristi spazzarono via i luoghi dove musicisti, artisti, filmaker e creativi di ogni tipo vivevano e lavoravano. Fu la fine dell’era dei bohemien. Io lavorai a un altro club chiamato Peppermint Lounge, ma pagai anche io un prezzo per le sostanze che si consumavano all’epoca e fui licenziato. Lavorai poi in altri club, ma ho continuato però a dipingere e seguire la scena artistica e dei club. Nel 2004 ho venduto il mio loft di Manhattan e mi sono trasferito a nord dello stato di New York».

IL QUARTIER GENERALE

La notte di New York era una sfida tra locali alla moda. Il rivale principale del Mudd Club si chiamava Club 57, uno scantinato riadattato di una ex chiesa polacca sulla 57esima nell’East Village che visse una stagione di gloria, ora celebrata da una mostra in corso al Moma e da un ricco catalogo intitolati: Club 57: Film, Performance and Art in the East Village, 1978-1983. Era il punto di convergenza tra arti figurative e musicali, un piccolo locale psichedelico e decadente in cui i performer si esibivano a contatto con il pubblico, ma che divenne un quartier generale della controcultura newyorkese di quegli anni e un laboratorio dove stravaganza, arte, spettacolo, moda e musica si incontravano.

Keith Haring (attivissimo anche al Mudd Club) organizzava le mostre. Le performance musicali e teatrali erano curate dall’attrice Ann Magnuson che era pure musicista d’avanguardia con il gruppo Bongwater.

«Negli anni Settanta l’East Village era cupo – ha ricordato la Magnuson -. Una Disneyland immaginata da George Grosz. Interi isolati sembravano Londra dopo i bombardamenti. Desolati, in rovina, con tossici che camminavano come zombie. Poi c’erano quartieri che ricordavano vecchi paesi, in cui sembrava di essere in Polonia o a Budapest». Questo grigiore veniva combattuto con feste in cui trasgressione e provocazione si facevano arte, i costumi sessuali erano liberi, fluidi e sfrenati e non esistevano distinzioni di genere, razza, ceto sociale. La popolazione del club annoverava popstar come Cyndi Lauper, performer come l’icona gay John Sex, il pioniere hip hop Fab 5 Freddy, la drag queen RuPaul, l’etereo cantante pop Klaus Nomi e una varia umanità di creativi, hipster d’antan e travestiti.

«Vivevamo insieme e andavamo a letto insieme», ha ricordato un altro frequentatore del club, il pittore Kenny Scharf, legato negli anni Ottanta al mondo dei graffiti. L’avvento dell’Aids fu l’inizio della fine. L’epidemia mise fine a quel clima di massa libertà portando con sé tanti protagonisti di quella scena. Il club chiuse i battenti nel 1983.

Ma in quegli anni la storia si scriveva di notte. History Is Made at Night è proprio il titolo del libro pubblicato dal fotografo David Godlis, in arte GODLIS (tutto in maiuscole) che con i suoi scatti documentò la New York dopo il tramonto tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta. Il suo punto di riferimento era un locale diventato parte della mitologia rock. Lo storico CBGB. Il club, nella parte meridionale di Manhattan, era la creatura di Hilly Kristal che ne fu il solo e unico proprietario dall’apertura nel dicembre 1973 fino alla chiusura avvenuta nel 2006. L’insegna era una dichiarazione di intenti. Le lettere CBGB stavano per «Country, BlueGrass, Blues» i generi che Kristal si prometteva di ospitare. Le cose andarono molto diversamente.

«Quello che rese speciale il CBGB – ci racconta David Godlis – era innanzitutto il posto: la Bowery Street, ai tempi una terra di nessuno, un ampio boulevard che di notte era deserto, senza negozi aperti se non un distributore e alcuni hotel per vagabondi. C’era qualcosa di romantico per i ragazzi in cerca di emozioni. Poi c’era Hilly Kristal, tanto brillante da dare spazio a un gruppo come i Television in un posto pensato per il blues e il country. I Television portarono Patti Smith. E ben presto la voce iniziò a circolare, arrivarono i Ramones, Blondie e i Talking Heads. Hilly diede a queste band un posto dove cucinare qualcosa fuori dal sistema, lontano da un business musicale che non li voleva. L’atteggiamento era questo: non mi volete? Fuck you, ve lo faccio vedere io. Ed ecco la musica: arrabbiata, romantica, rumorosa, elettrica. La musica di New York City. Lanny Kaye (produttore, compilatore, chitarrista storico di Patti Smith, ndr) disse che fu come se un fulmine avesse elettrizzato il CBGB. Aveva ragione».

Ai tempi, spiega GODLIS, non solo nessuno voleva la musica di New York, nessuno voleva neppure stare a New York: «Chi poteva era scappato al sole della California. Chi era rimasto aveva la città tutta per sé. Pensate a Taxi Driver. Affitti bassissimi. Negozi vuoti. Strade deserte alla notte. Emozioni a basso costo». Così il locale nato per ospitare i classici della tradizione musicale Usa divenne tempio di avanguardia e di avventure musicali e non solo. Nel 1981 diventò persino il set della prima e forse unica situation comedy rock della storia, una serie televisiva sperimentale intitolata Tv-CBGB che passò brevemente su qualche misconosciuta emittente via cavo, venendo poi sospesa. La fama del club arrivava anche dalle meravigliose immagini dei concerti che diversi fotografi scattavano. «Le band – ricorda GODLIS- avevano l’unico obbligo di suonare pezzi originali. Nessuna cover. I fotografi non avevano nessuna stupida limitazione. Fu un sogno. Così Hilly riuscì a ottenere le foto più belle possibili del suo club e un gruppo di fotografi giovani e di talento venivano lasciati liberi di scattare come e quando volevano. Chiunque iniziò a vedere grandiose foto dei concerti del CBGB e questo aumentò la fama del posto. Una combinazione perfetta in cui tutti vincevano». Ogni gruppo suonava due set: «Vedevi i Talking Heads alle 21 i Television alle 22:30, i Talking Heads a mezzanotte e poi all’una e mezza ancora i Television. Altri club nacquero e raccolsero molto di quello che il CBGB aveva seminato». E ancora: «I miei soggetti preferiti erano Joey Ramone e Stiv Bators, i Cramps, Alex Chilton, Debbie Harry, capace di essere sempre cool. I Suicide erano un gran divertimento. Amavo fotografare i Television, ma non erano un soggetto facile. Richard Hell era a suo modo un grande, molto divertente. Giù dal palco ricordo come grandi personalità Joey Ramone e Stiv Bators, Chris Stein dei Blondie, Richard Lloyd dei Television, Bob Quine dei Voidoids, Lenny Kaye e Jay Dee della band di Patti Smith e tante personalità che frequentavo come Jim Jarmusch, Eric Mitchell, Tish e Snooky che fondarono il marchio Manic Panic, Danny Fields. Sono tutti finiti nelle mie foto e nel mio libro».

Oggi GODLIS vive ancora in un piccolo appartamento dell’East Village che aveva affittato ai tempi per pochi dollari e che ospitò anche Abbie Hoffman, leader della protesta giovanile degli anni Sessanta. Quella New York non esiste più, il CBGB è sopravvissuto a lungo, ma ha chiuso nel 2006 – al suo posto il negozio di abbigliamento di John Varvatos in cui ancora campeggiano foto e locandine dei tempi d’oro – schiacciato dai debiti per affitti e tasse non pagate, molti club sono arrivati e andati via senza lasciare lo stesso segno. «I club di oggi non li conosco – dice David Godlis – molto è cambiato, ma nel mio palazzo vive Roberta Bayley (artista punk e autrice della storica copertina del primo disco dei Ramones, ndr) e oltre la strada l’attrice Helen Mirren. Oggi questo mi basta per dire che sono al centro di una scena culturale».

SCIENZA QUOTIDIANA

Per conoscere la Big Apple di oggi dobbiamo parlare con l’italiano Matteo Rini. Potremmo definirlo un cervello in fuga. Laurea in ingegneria all’università di Pavia, phd in fisica a Berlino, un’esperienza nel laboratorio di Berkeley e ora giornalista e divulgatore scientifico per la American Physical Society. Se di giorno si occupa di scienza, di notte suona e cura la programmazione musicale del Planeta nell’East Villlage, più che un club un ritrovo e una comunità artistico-culturale nata in un ex palestra di yoga nel «basement» di quello che è oggi uno studio di progettazione di app per telefonini e realtà virtuale. Nato quasi per mecenatismo da parte dei titolari dell’azienda, il Planeta ha ospitato diversi artisti al confine tra il jazz, la classica e l’avanguardia tra cui il violoncellista Ernst Reijseger (già collaboratore di Werner Herzog), la cantante Ami Yamasaki e un anello di congiunzione con la New York di 40 anni fa come Arto Lindsay.

La metropoli oggi offre tanta musica, ma in un contesto profondamente diverso. La gentrification, la borghesizzazione dei quartieri, ha trasformato zone malfamate in quartieri di lusso e ha allontanato le comunità artistiche.
«Il Planeta – spiega Matteo Rini – sorge in una zona dell’East Village chiamata Alphabet City, dove le strade hanno il nome delle lettere. Anni fa era così pericolosa che le vie venivano classificate così: A come “all right”, tutto bene, B come “brave”, devi essere coraggioso per vivere qui, C come “crazy”, pazzo, e D come “dead”, morto. Ora è una zona che si possono permettere solo i ricchi. C’è ormai un conflitto tra creatività e necessità di sopravvivere. La città è diventata carissima. Anche quartieri dove si erano trasferiti gli artisti negli ultimi anni come Williamsburg (a Brooklyn) oggi hanno prezzi delle case che arrivano a 20mila dollari al metroquadro. Gli artisti si sono trasferiti nuovamente e si sono allontanati sempre di più da Manhattan e vivono in zone come Bushwick o Crown Heights, oppure nel Queens e nel Bronx. In molti fanno fatica a sopravvivere». Anche perché, spiega Rini, in netto contrasto con questa opulenza, la paga dei musicisti, forse anche per l’altissima offerta, è davvero misera: «Ci sono musicisti di grandissimo talento e di una certa fama che fanno serate per 30, 40 dollari e due birre. Un locale storico come il Blue Note è capace di pagare certi musicisti 70 dollari a esibizione. Alcuni offrono a chi suona il 40% dell’incasso obbligando quindi gli artisti a portarsi il proprio pubblico. Altrove si suona per le mance». Ma nonostante tutto la magia sopravvive. «New York è ancora il centro del mondo – dice Rini -. Tutti i migliori musicisti vogliono essere qui. È il luogo delle avanguardie, delle sperimentazioni, dei generi di nicchia e della fusione tra stili, culture e tendenze. Qui si stringono contatti, nascono collaborazioni e persiste anche il connubio tra arti figurative e musica anche se forse ormai legato a iniziative più commerciali». I tempi sono cambiati, la «gentrification» avrà modificato i connotati alla città, ma a New York la storia si scrive ancora di notte.