Per diversi mesi dopo quell’ispirazione onirica, Paul McCartney andò in giro a chiedere a tutti i suoi amici musicisti se davvero quel motivo non fosse stato già scritto da qualcun altro: «Fu come portare un oggetto smarrito alla polizia. Pensai che se nessuno l’avesse reclamata dopo qualche mese avrei potuto tenermela». Nessuno reclamò Yesterday in effetti, e l’oggetto smarrito è rimasto saldamente nelle sue mani ben oltre i tempi di usucapione. Certo, qualcuno ricorderà Picceré, canzone napoletana fantasma candidata come antecedente del capolavoro di Sir Paul; peccato fosse priva di qualsiasi testimonianza scritta o sonora. Nelle scorse settimane invece ci ha pensato Gigliola Cinquetti a rilanciare la teoria del plagio inconsapevole, con un’analisi armonica a dir poco creativa: «Ha la stessa sequenza di accordi di Non ho l’età. I Beatles allora erano dei ragazzini e l’hanno sicuramente sentita… coincidenza?».

La Cinquetti contro i Beatles, Olivia Rodrigo contro Courtney Love, i Pinguini Tattici Nucleari avversari degli U2 agli europei di calcio. E come dimenticare Michael Jackson che entra nella pretura romana di piazzale Clodio citato in giudizio da Albano? È il tribunale dell’assurdo, in cui è quasi sempre la parte più celebre a sedere al banco degli imputati. Patteggiamenti interni alle major, perizie, musicologi forensi, fino all’emendatio autoriale su carta bollata: è così che Willie Dixon aggiunge la sua firma a Whole Lotta Love, Chuck Berry riscatta Surfin’ U.S.A. e gli Stones pignorano il Grammy di Bittersweet Symphony. Cortocircuiti esilaranti, se non fosse per i milioni di dollari in royalties che tintinnano a tempo col martello del giudice.

Ma di cosa parliamo quando parliamo di plagio? Il principio stesso è indissolubilmente legato al culto dell’autorialità individuale emerso a partire dalla seconda metà del Settecento, in virtù del quale il centro dell’attenzione si sposta progressivamente dalle qualità formali dell’opera alla sua origine, specie quando la si può attribuire a un genio solitario. E lì il Romanticismo va a nozze. Una forma mentis che a sua volta va a braccetto con lo sviluppo dell’editoria musicale e del copyright (concetto solo parzialmente traducibile con diritto d’autore): non stupisce che ancora oggi sia la musica stampata a produrre il corpo del reato in tribunale, anche quando è una semplice — e approssimativa — trascrizione dell’incisione, che proprio non ce la fa ad assurgere al rango di fonte primaria. Definito dalla giurisprudenza come «appropriazione degli elementi creativi dell’opera altrui», il plagio non è esplicitamente menzionato né dal codice civile né dalla normativa sul diritto d’autore, souvenir del 1941. Tanto meno lo sono i presunti parametri quantitativi (quante note posso copiare prima di incorrere in sanzioni?) per decretarlo e graduarlo: dal plagio camuffato — che ritocca gli elementi carpiti per dissimularne la provenienza — a quello palese, in cui il plagiario confida sulla distanza temporale, geografica o stilistica che separa lui e il suo pubblico dall’originale.

Furono le vicende legali di un altro Beatle, George Harrison (My Sweet Lord contro He’s So Fine di Ronald Mack) a creare il fondamentale precedente giuridico che introdusse la fattispecie del plagio inconscio. Trattasi della cosiddetta cryptomnesia, l’utilizzo involontario di idee sedimentate nella memoria di un soggetto convinto della loro assoluta originalità. Un fenomeno che ciascuno di noi esperisce quotidianamente, di solito però senza violare il copyright. D’altra parte Harrison è in ottima compagnia, se è vero che anche il signor Nietzsche avrebbe inavvertitamente copiato tale Justinus Kerner nel suo Così parlò Zarathustra.

Oltre le schermaglie del web e i suoi almanacchi di contraffazioni musicali, nel discorso sul plagio c’è spazio per la riflessione riguardo la pratica musicale contemporanea, le sue modalità di produzione e fruizione, la sua persistenza nella memoria. Risulta evidente la natura collettiva di un fenomeno regolato da norme non solo giuridiche ma soprattutto socio-culturali, le quali segnano il confine tra i comportamenti accettabili e quelli intollerabili; copynorms calibrate anche sulle aspettative dell’ascoltatore e sulla necessità sociale di veder riconosciuta la paternità dell’opera, essa stessa sempre più collettiva.

Quella della popular music è infatti un’autorialità che richiede a gran voce criteri specifici, con tratti identitari la cui fisionomia non può più essere ricercata tra i segni dello spartito, né semplicemente modellata sulla linea melodica. Non è lì che si rintracciano creatività e originalità, presupposti per un diritto d’autore clamorosamente in ritardo sull’evoluzione artistica e tecnologica (che dire, ad esempio, del sampling e dei problemi che pone in merito alla tutela degli autori e dei produttori fonografici?). Occhio non vede, orecchio non sente. È lecito attendersi che anche i cacciatori di plagio aggiornino le loro competenze musicali, dalla pagina al supporto sonoro?

In definitiva, il plagio si muove sull’instabile crinale tra memoria e creatività, due campi che si fecondano a vicenda. Come ascoltatori, ricerchiamo il piacere nella riproposizione di qualcosa già presente nel nostro archivio mnestico; come critici, però, gridiamo al furto quando il ricordo è centrato con troppa precisione. Ennio Morricone sosteneva che «la musica orecchiabile, proprio perché tale, assomiglia a qualche cosa già scritta, già proposta alla gente. Se così non fosse non avrebbe successo», cosicché «chi ha coscienza di questa professione dovrebbe astenersi dal fare cause e controcause per plagi indimostrabili, disturbando i giudici per simili sciocchezze». Funziona così in più di un genere: «Prendi dei pezzi usati e costruisci un giocattolo nuovo di zecca», dice Elvis Costello. La creatività è anche questo, tasselli di conoscenza già acquisita ricomposti per produrne di nuova, nella speranza che nessuno venga a reclamare l’oggetto smarrito.