Ai molti aspetti paradossali che contraddistinguono la sfera politica in Italia, possiamo aggiungere un altro paradosso che riguarda direttamente l’oggetto su cui Norma Rangeri ci ha invitato a discutere. Quanto più la «sinistra» diventa inconoscibile nelle «cose» tanto più estende i suoi confini nelle «parole».

A «sinistra del Pd» si stanno aprendo vastissimi spazi per la «sinistra». Con formulazioni appena un po’ differenti, frasi di tal genere vengono costantemente ripetute anche sulle colonne di questo giornale. Lo si dice ormai da tanto tempo, ma lo stato di cose presente ci prova in maniera difficilmente controvertibile quanto grande sia la differenza tra affermazioni desideranti e realtà effettuale. Comunque non è senza interesse chiedersi quale sia il modo con cui è possibile intendere il termine «sinistra».

Probabilmente la maggioranza di coloro che si sentono impegnati nella costruzione della cosiddetta «casa comune» ritiene che la «sinistra» in fieri, quella che dovrà occupare gli spazi lasciati liberi dal Pd, sia la sola legittimata all’uso di quel termine. Ci sono però anche coloro che pensano ad un soggetto politico «a sinistra» del Pd. C’è poi il Pd che ha riscoperto il valore nella comunicazione (nella propaganda cioè) di una parola dalla quale, proprio nel suo momento fondante, aveva invece teso a sottolineare la distanza. Ricordiamo bene Veltroni, fondatore e primo segretario, definire la nuova ragione del partito con espressione di radicale chiarezza. A chi gli faceva notare che ormai egli non pronunciava più «la palabra izquierda», rispondeva : «Es que somos reformistas, no de izquierdas» («El País», 1/03/2008). Ora Veltroni ha riscoperto la «parola», così come il suo creativo epigono Renzi.

Naturalmente, trattandosi di pura comunicazione/propaganda, la «parola» deve fluttuare nell’aria, non avere alcun peso ed alcuna radice nelle «cose». Sinistra è «cambiamento», sinistra è «fare», come diceva compulsivamente Berlusconi, al massimo sinistra è un flebile richiamo ai sempiterni valori. Talmente sempiterni che, prescindendo da qualsivoglia dimensione storico-analitica dei concreti rapporti economici e sociali, possono andar bene per tutti.

Proprio per questo lo «sdoganamento» (così ha titolato «la Repubblica») veltron-renziano del termine «sinistra» è semplicemente funzione del mercato elettorale. Funzione efficace peraltro perché a) richiama una tradizione di lungo periodo i cui effetti di trascinamento non sono certo esauriti; b) sposta il confronto con qualsiasi altro soggetto che voglia definirsi di sinistra su un piano esclusivamente assiale.

La collocazione sulla dimensione assiale, essendo le denominazioni politiche strumenti di battaglia, non è la conseguenza di una tecnica naturale, ma degli esiti di lotte politiche e culturali. Per questo tali collocazioni si ridefiniscono continuamente e vanno valutate come sintomi di processi in corso, del tutto esterni rispetto a qualsiasi criterio di oggettività. È evidente, quindi, il vantaggio del Pd che, restando sul piano assiale, può competere con un forza che si colloca inevitabilmente «più a sinistra». E il «più a sinistra» è il luogo di tutte le forme di «estremismo», è il luogo del «più uno». L’espressione «quelli del più uno» veniva usata dal sindacato (Fiom) e dal Pci di Piombino, la città-fabbrica dove è avvenuta la mia prima formazione politica. La città fabbrica dove, per un periodo non breve, la realtà della direzione operaia ha coinciso con le ipotesi formulate negli scritti dei nostri classici. Veniva usata nei confronti dei «gruppuscoli», che dopo ogni lotta e dopo il successivo accordo, e nei primi anni Settanta gli accordi erano sempre favorevoli ai «produttori», ai siderurgici, si presentavano ai cancelli della grande fabbrica insistendo sull’insufficienza di quegli accordi, sulla scarsa radicalità delle lotte. Quelli del «più uno», appunto.

In un asse dove è collocata una forza di establishment che si definisce come «sinistra» e così viene definita dalla stragrande maggioranza dei media, la contemporanea presenza di una forza «più a sinistra», indipendentemente dalle prassi politiche reali, finisce inevitabilmente per ripresentare quella stessa dinamica.

Certamente è la parola «sinistra» ad avere assunto, ed ormai da lungo tempo, una tale indeterminatezza semantica da permettere qualsivoglia scorreria propagandistica. Un breve intervento non è la sede per discutere della continuità o meno del suo uso nel processo in corso. D’altra parte quello che appare logicamente giusto assai spesso non lo è nei processi di realtà. Ciò che, però, dobbiamo del tutto evitare è qualsiasi riferimento ad un posizionamento «più a sinistra» del Pd.

Karl Polany ha affermato: «Il socialismo è essenzialmente la tendenza inerente ad una civiltà industriale a superare il mercato autoregolato subordinandolo consapevolmente ad una società democratica» (“La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca”, 1944). Se questa conclusione della lunga analisi di Polany, diventa il minimo comun denominatore di tutte le forze impegnate nella costruzione della «casa comune», ecco che la collocazione assiale cessa di avere senso. Non si tratta di essere «più a sinistra», bensì di fare un salto qualitativo, di essere «diversi».

In fondo il problema della «diversità» è tutto qui. Il prius della diversità, anche quella di Berlinguer, non stava nell’etica, nell’antropologia, stava in una concezione della politica e degli obbiettivi della politica.
Affermare una teoria e una prassi che tendono a subordinare il «mercato autoregolato» alla società «democratica» è compito che condiziona tutti gli ambiti della politica, tutta la sfera dei diritti ed anche la sfera dei valori. Il riferimento ai «valori», infatti, ha senso solo all’interno di una precisa concretezza analitica. Frutto, cioè, di una considerazione dei «valori» come dimensione non separata dalla concezione del rapporto tra democrazia e forme del capitale indicato da Polany.
Tutto ciò è di sinistra?