La lettura dei libri di Nikolas Rose non è mai neutra e la loro interpretazione è sempre un atto rischioso. Le sue tesi sono infatti destinate ad essere discusse, confutate, anche se alla fine diventano una sorte di punto di riferimento. Rose è uno dei più rilevanti foucaultiani anglosassoni e allo stesso tempo è direttore del Department of Social Science, Health, and Medicine al King’s College di Londra, già fondatore del Bios Centre for the Study of Bioscience, Biomedicine, Biotechnology and Society della London School of Economics and Political Sciences che ora si è trasformato nello European Neuroscience and Society Network (Ensn), finanziato dall’European Science Foundation.
Poco noto in Italia, Rose è un ricercatore che ispirandosi al Michel Foucault della governmentality ne pragmatizza l’analisi, rendendola un efficace mezzo per comprendere e demistificare alcuni aspetti delle scienze mediche, psichiatriche e psicologiche contemporanee. Nonostante sia uno scienziato sociale «critico», egli dirige e collabora con organizzazioni note per far ricerca mainstream, pubblicando per Cambridge e Princeton. Una ibridazione fra tradizione e innovazione, radicalismo e moderazione, che può sembrare sospetta. Rose non è, quindi, facilmente classificabile, né dai ricercatori non convenzionali, né dai tradizionalisti. Dei suoi numerosi volumi (The Psychological Complex, Governing the Soul, Inventing Our Selves, Powers of Freedom, The Politics of Life Itself, Governing the Present, Neuro), uno solo è stato tradotto, La politica della vita, per Einaudi.

La frontiera delle neuroscienze

A partire dalla analisi sullo sguardo clinico, Rose dimostra che nella psicologia e nella medicina contemporanee alcuni concetti cari alla storia delle scienze (il normale e il patologico, la vita e il corpo, la mente e il cervello) sono ricostruiti in una nuova epistemologia biotecnologica. Egli cerca di dimostrare quindi che la ricerca del benessere o, meglio, della «ottimizzazione» della vita conduce ad istituire nuovi regimi terapeutici che cambiano la politica, la scienza e l’etica contemporanea. Questa analisi di fondo lo ha portato a ricostruire gli scenari biopolitici, connessi al biocapitalismo e alla governmentality, secondo una concezione spregiudicata del potere, non legata a tematiche repressive, quanto piuttosto alla microfisica foucaultiana del potere produttivo che, per Rose, poste certe condizioni, può anche essere utile, necessario, positivo. Questa è anche la chiave di lettura del suo ultimo libro Neuro: The New Brain Sciences and the Managment of the Mind, pubblicato per Princeton University Press, in collaborazione con Joelle M. Abi-Rached, una dottoranda ad Harvard.
Il libro risulta interessante perché nei sette capitoli analizza gli esperimenti cruciali, i fenomeni contraddittori e le promesse mancate delle neuroscienze, immaginando una possibile riconciliazione fra studio del cervello e scienze sociali e umane. Rose non trascura di analizzare criticamente l’assunto, caro agli umanisti, per il quale la ricerca biotecnologica e l’uso applicativo delle neuroscienze, ignorando due secoli di ricerca storica, sociologica e culturale, pone continuamente la propria credibilità a rischio, discutendo nei minimi particolari la trasformazione subita dal concetto di «riduzionismo».
Dopo aver analizzato – soprattutto nei suoi volumi precedenti – l’influenza che negli ultimi 150 anni le scienze psicologiche hanno avuto sulla gestione amministrativa degli esseri umani per mezzo, ad esempio, della valutazione e della funzione di expertise nei contesti pubblici, definita psychological complex, Rose ora affronta il decennio del cervello che avrebbe dovuto trasformare le scienze psi in scienze neuro, traghettando i paesi a capitalismo avanzato nel neurobiological complex.
Effettivamente negli ultimi anni sono fioriti nuovi domini scientifici per cui ai più tradizionali domini delle scienze filosofiche e umane si è aggiunto il prefisso neuro. E così ecco un fiorire di neologismi: neuroeconomia, neuromarketing, neuropolitica, neuroetica, neurofilosofia, neurogiurisprudenza, la neuroergonomia. Tutto ciò non può essere semplicemente liquidato come una delle tante «mode» provenienti dagli Stati Uniti, se non altro perché le neuro muovono un montagna di capitali fra investimenti per la ricerca, indotto della lobby farmaceutica, riclassificazione delle persone.

Valutazioni «smart»

A riprova della pervasività dell’attenzione verso le neuroscienze, basta ricordare che gli ultimi esami di maturità riguardavano proprio «la ricerca sul cervello»; i maturandi dovevano infatti commentare brani di quotidiani italiani in cui si spiegavano le ragioni del super finanziamento della Brain Research sia da parte del presidente statunitense Barack Obama che della Unione Europea. Nelle stesse tracce i maturandi avrebbero potuto commentare una frase di Edoardo Boncinelli che recita: «Se si vuole studiare l’essere umano (…) occorre uno studio psicologico. Il fatto è che la psicologia sperimentale è molto lenta: per arrivare a una qualche conclusione ci vogliono decine di anni (…). Per fortuna, contemporaneamente si è registrata l’esplosione della biologia, soprattutto della genetica e della biologia molecolare e, un po’ più tardi, della neurobiologia. (…) In un caso come nell’altro, si tratta di scienze né nuove né inattese. La terza linea di ricerca, invece, non era assolutamente attesa. È una linea relativamente nuova e come sbocciata dal nulla: un regalo del cielo o, meglio, della fisica moderna. In inglese questo campo di ricerca si chiama brain imaging».
Con il loro libro, Rose e Abi-Rached hanno quindi inconsapevolmente risposto agli ideatori dell’esame di stato, pubblicando un saggio molto denso, ricco di note e di rimandi.
Nell’introduzione si sostiene che affermare il definitivo superamento di Cartesio ad esempio ad opera delle neuroimmagini sia ancor oggi operazione incerta. Ci si chiede invece se l’uso di queste tecniche non sia in realtà il terminale di una lunga tradizione della gestione politica degli esseri umani. «Una sorta di macchina della verità o confessionale elettronico che rivela il funzionamento della mente e dà pubblico accesso al privato, con implicazioni per il management di ogni cosa, dalla educazione dei bambini alla scelta del partner». Una sorta di neurovalutazione «smart», dalla culla alla tomba, che in futuro potrebbe essere usata da agenzie governative per allocare risorse «in economia».
Il libro è, quindi, una sorta di critica evidence-based di come lo studio del cervello sia divenuto qualcosa di diverso da un semplice e utile perfezionamento della ricerca anatomica o psicologica. Qualcosa di più che un elemento terzo da correlare ai comportamenti per decretarne l’esistenza, come l’epistemologia contemporanea ha spesso sostenuto. Si evidenzia che nel 1958 erano solo 650 gli articoli scientifici riguardanti le neuroscienze, nel 2008 sono stati pubblicati più di 26500 articoli di ricerca neuroscientifica in oltre 400 riviste peer-riviewed. Un’nflazione che merita una analisi politica.

Il modello riduzionista

I capitoli trattano nell’ordine: i fondamenti neuroanatomici, cellulari del cervello e la storia delle neuroscienze, le promesse mantenute e quelle impossibili delle neuroimmagini, l’approccio translazionale della ricerca, dalle cavie di laboratorio ai contesti umani e sociali, sia come una risorsa e come un rischio, le neuroscienze e la classificazione delle malattie mentali, l’importanza della socializzazione per lo sviluppo del cervello, le neuroscienze della devianza e della criminalità, il concetto riduzionista del sé, le risorse e i rischi del management degli esseri umani in base alle neuroscienze.
In generale secondo Rose, assumendo che i governi debbano conformarsi alla natura dei governati, le «scienze psi», sin dallo loro nascita, hanno sollecitato una teoria dell’intervento che voleva essere quanto di più affine a come gli esseri umani sono nella realtà. Su questa linea, recentemente le neuroscienze hanno tentato di sostituirsi alle «scienze psi» fornendo evidenze sperimentali che sembrano essere ancora più simili alla natura delle persone.
Il volume analizza così le maggiori ipotesi (ad esempio, i modelli sui neurotrasmettitori o i geni specifici della devianza odei disturbi mentali, il problema dei circuiti dei «neuroni specchio» nel cervello umano contro quello animale, l’epigenetica, la plasticità cerebrale nei primi tre anni di vita), citando prove e controprove riguardante le possibili applicazioni di uno stesso insieme di ipotesi dimostrate sperimentalmente.
Rose è perfettamente consapevole che spesso le nuove ricerche hanno la consistenza del vino vecchio in botti nuove o meglio in botti più precise di quelle di un tempo, così come censura la divulgazione rozza e sensazionalistica di certe evidenze neuroscientifiche. Ad ogni modo, il volume mette le neuroscienze al servizio di una sorta di ottimismo della volontà, evidenziando come le potenzialità del cervello siano inibite o sviluppate dalle relazioni e dall’educazione. Nel libro in realtà si ribaltano quindi i rapporti di potere fra scienze psi, scienze umane e neuroscienze. Non importa tanto che le prime siano un epifenomeno delle ultime: le prime sono soprattutto «necessarie» per comprendere l’epigenesi del cervello che evolve con l’individuo in un determinato contesto educativo e relazionale. La psicologia generale e dinamica, le scienze umane risulterebbero proprio essenziali alla ricerca neuroscientifica, piuttosto che questa alle prime. Ecco perché il volume si conclude con una asserzione importante: le neuroscienze devono divenire scienze umane.

Lo scientismo rimosso

Da decenni, soprattutto in Italia, si confrontano correnti materialiste facilmente entusiaste dell’idea che il cervello si sia sostituito al volto e al corpo come specchio dell’anima, reclamando come sperimentale uno studio semplificato dei comportamenti, con un arcipelago di correnti teoriche, filosofiche, più o meno critiche, che tendenzialmente non accettano il riduzionismo delle neuroscienze senza avere tuttavia dimestichezza con una critica evicence-based delle stesse. Questo libro è quindi una utile provocazione intellettuale sia per gli entusiasti che per i detrattori delle «neuroscienze», tentando di posizionare il dibattito in un ambito non ingenuo; senza temere le neuroscienze, Rose e Abi-Rached propongono un ribaltamento epistemologico che spinge per un rinnovamento e una riclassificazione del neurobiological complex nelle scienze umane e sociali.
Per essere leali con gli autori occorre anche dichiarare che il libro è fin troppo celebrativo delle stesse neuroscienze. Si riportano in modo analitico i risultati, si citano gli articoli e le riviste più «prestigiose», si evidenziano gli esperimenti, si riassumono le posizioni epistemologiche e biopolitiche dei grandi nomi, si storicizza per legittimare. Questa operazione è fin troppo corretta ed evasiva rispetto a certe storture e degenerazioni prodotte in passato dall’approccio scientifico classificatorio, utilitarista e scientista, abbracciato da molti scienziati «neuro». I riferimenti obbligati sono la chirurgia per «correggere» le «patologie» della mente, la lobotomia usa e getta, e alla lobotomobile di Walter Freeman, che il libro liquida in poche righe. Da questo punto di vista è esemplificativo il capitolo sul comportamento antisociale in cui si riconosce a fondamento dello studio contemporaneo proprio quella antropologia criminale, gerarchizzante, escludente e paranoica, sistematizzata da Cesare Lombroso con una serie di schematismi e ingenuità scientifiche che fanno ancor oggi inorridire e possono certamente essere didatticamente usate, ma solo come prova in negativo di tutto ciò che uno scienziato non dovrebbe né fare, né sostenere se vuole sfuggire a pratiche eugenetiche e di controllo biopolitico.