La Convention del partito Democratico americano che ha consacrato Joe Biden come il candidato che sfiderà Donald Trump alle elezioni presidenziali del prossimo 3 novembre, si è svolta per colpa della pandemia in versione virtuale. Per quest’anno niente kitsch politico, niente sostenitori con cappellini, niente coriandoli né applausi scroscianti, solo tanti collegamenti video. A scaldare l’atmosfera ci ha pensato però il rock. Come sigla dell’evento infatti è stata scelta la canzone The Rising che Bruce Springsteen pubblicò nel 2002 come risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre e che voleva essere un inno di rinascita. Una canzone che appare perfetta per i mesi bui che gli Stati Uniti stanno vivendo.
Oggi non ci stupiamo più se vediamo rock e popstar schierarsi accanto a candidati presidenziali. La politica ha bisogno di emozionare, di veicolare messaggi e di entrare nella quotidianità della gente, tutti compiti che fanno parte della natura stessa della musica popolare. Il primo vero sodalizio organico tra rock’n’roll ed elezioni presidenziali a stelle e strisce risale però alla prima metà degli anni Settanta. Ce lo ricorda un nuovissimo documentario diretto da Mary Wharton, prodotto da Chris Farrell e sceneggiato da Bill Flanagan, intitolato Jimmy Carter: Rock & Roll President e che avrebbe dovuto inaugurare lo scorso aprile il Festival Tribeca di New York, poi inevitabilmente soppresso per colpa dell’epidemia. Il film, che da questo mese sarà diffuso nei cinema americani e sulle piattaforme online, racconta la curiosa storia di come un insolito candidato, populista ante-litteram, arrivò alla Casa Bianca anche grazie al rock e ai suoi contatti con lo star system musicale dell’epoca.

RICORDI PERSONALI
Jimmy Carter, che oggi è un arzillo 95enne che vive accanto alla moglie 93enne, era un outsider quando decise di candidarsi alla presidenza. Era il governatore dello stato della Georgia dove la famiglia aveva un’azienda di coltivazione di noccioline. Politico del sud dal curriculum anti-segregazionista e anti-razzista, si presentava come un uomo della terra e del popolo, un’affabile sudista riformista aperto al cambiamento. In un’epoca che voleva liberarsi dal fantasma di Richard Nixon, Carter capì che la musica rock poteva essere un modo per parlare a un elettorato giovanile che aveva tanto osteggiato le politiche della Casa Bianca negli anni precedenti e rappresentava anche una risorsa per finanziare la sua candidatura.
Come racconta lo stesso ex-presidente nel documentario, tutto iniziò dalla sua passione per la musica nata dall’ascolto delle radio locali e dai cori delle chiese battiste che frequentava. Nel film i ricordi personali di Carter sono accompagnati dalle testimonianze di grandi artisti che lo hanno conosciuto, primo fra tutti Bob Dylan, poi Willie Nelson, Gregg Allman, Paul Simon, Roseanne Cash, Trisha Yearwood e Garth Brooks. «La Allman Brothers Band mi ha portato alla Casa Bianca» ricorda il Presidente.
La sua transizione da poco conosciuto governatore alla ribalta nazionale fu sostenuta dai concerti del gruppo southern rock con eventi live che raccoglievano fondi e attiravano l’attenzione su un candidato che era lontanissimo dalla cupezza di Nixon e dall’ottuso grigiore del suo successore Gerald Ford. Fino ad allora aspiranti presidenti e musicisti non si frequentavano molto. Frank Sinatra era amico personale di John Fitzgerald Kennedy e artisti folk come Peter, Paul and Mary o Simon & Garfunkel avevano sostenuto la fallimentare sfida di George McGovern contro Nixon. Carter strinse invece un legame organico con gli artisti, in gran parte grazie a Phil Walden, ai tempi manager della Allman Brothers Band e capo dell’etichetta discografica Capricorn Records. Alla base c’era non solo una scelta ideologica, ma anche uno scambio di favori. Da governatore, Carter promosse diverse leggi contro la pirateria musicale e contro i bootleg, le registrazioni dei concerti non autorizzate che all’epoca erano una fetta importante del mercato discografico.

I VERSI DI BOB
Fu così quindi che il manager Walden spinse gli artisti a sostenere l’aspirante Commander in Chief. Un giorno, per riempire un comizio in Oregon che si annunciava semi-deserto. arrivò in soccorso il popolare Jimmy Buffett a cantare. La folla accorse. Walden organizzò anche l’incontro tra Carter e Bob Dylan. Il Governatore era più che un fan di Dylan. Nel documentario suo figlio Chip ricorda come nei suoi anni giovanili fosse in pesante polemica con l’ambizioso genitore e, in un periodo di forte contrasto durato quasi un anno, i due si rivolgessero la parola quasi esclusivamente citando le canzoni del cantautore futuro Nobel. Ricorda in proposito lo stesso Dylan che il suo primo incontro con Carter fu proprio introdotto dal politico che gli recitava alcuni versi del suo repertorio. Fu l’inizio di un’amicizia che dura tuttora. Dylan venne anche citato dal candidato democratico nel corso del discorso con cui accettava la nomination del suo partito alla Convention del 1976: «Non ho mai avuto più fiducia di quanta ne abbia oggi. Abbiamo un’America, che usando un’espressione di Bob Dylan, è “impegnata a nascere, non occupata a morire”». In realtà il verso era una parafrasi. La vera citazione del brano It’s Alright, Ma (I’m Only Bleeding) era l’esatto opposto «impegnata a morire, non occupata a nascere» («he not busy being born is busy dying»), ma in politica anche questo è permesso. Carter citerà Dylan anche nella sua autobiografia come «la fonte che mi ha aiutato a capire quello che c’è di giusto e sbagliato nella nostra società». Riuscì ad arricchire il suo parterre di sostenitori con James Brown, Johnny Cash e Charlie Daniels e con promoter, produttori o discografici come Walter Yetnikoff, capo della Columbia Records, Ron Delsener, Bill Graham, Jerry Moss, Jonny Podell e Jerry Wexler. Phil Walden fu comunque il più attivo e sollecitò il sostegno di centinaia di colleghi dell’industria musicale.

NOBEL PER LA PACE
Eletto presidente, Jimmy Carter aprì la Casa Bianca ai musicisti. Nel giugno 1978 organizzò nel giardino della residenza presidenziale uno straordinario festival jazz con Dizzy Gillespie, Dexter Gordon, Max Roach, Sonny Rollins e Herbie Hancock. Invitò nello Studio Ovale anche il suo grande amico Willie Nelson che non perse l’occasione di farsi uno spinello (pare con dell’erba fornitagli dal figlio del Presidente). La presidenza Carter fu però molto sfortunata. Lo scenario internazionale era tormentatissimo. Il Presidente realizzò uno storico successo portando al tavolo della pace Israele ed Egitto, ma alla fine del suo mandato l’Unione Sovietica aveva invaso impunemente l’Afghanistan, l’Iran della rivoluzione komehinista aveva umiliato gli Usa prendendo in ostaggio i funzionari dell’ambasciata di Teheran e la crisi petrolifera aveva portato il paese in una grave crisi economica.
Alle elezioni del 1980 Carter arrivò con una percentuale di approvazione intorno al 34%. Si trovò contro l’ex attore ed ex governatore della California Ronald Reagan che in un dibattito televisivo si rivolse agli elettori dicendo: «Chiedetevi: state meglio oggi di quanto stavate quattro anni fa?». L’esito del voto divenne scontato. Carter prese 8 milioni di voti meno di Reagan. Ma la sua storia non finì con questa sconfitta. Da allora si è impegnato in prima persona senza sosta in ruoli diplomatici agendo su diversi fronti, fino ad essere insignito nel 2002 con il premio Nobel per la Pace. Anche gli anni della sua presidenza sono stati rivisti in chiave assai più benevola. Oggi Jimmy Carter non solo è ricordato come il politico rock’n’roll, ma il suo attivismo negli anni che dovevano essere dedicati alla pensione gli sono valsi l’appellativo di migliore ex-presidente della storia degli Stati Uniti.