Di libri che raccolgono impressioni, interventi, cronache e brevi saggi se ne sono sempre fatti molti, e in special modo all’epoca dei grandi elzeviri e degli articoli di terza pagina. La loro buona riuscita dipendeva, ora come allora, dalla qualità dei testi, naturalmente, ma anche dalla possibilità che questi lavori estravaganti, pubblicati ora qui ora lì, ricevessero dal nuovo accostamento come una vita nuova. Al pari che a certi fiori, anche a certi articoli è dato vivere una seconda giovinezza, posto che si trovi una voce dietro la scena (così recitava il titolo di una fra le più belle di queste raccolte) che faccia da nastro rosso a questo bouquet.
Anna Ottani Cavina ha adesso composto per l’editore Adelphi Una panchina a Manhattan («Imago», pp. 395, 145 illustrazioni a colori, euro 48,00) adunando alcune sue cronache scritte nel tempo delle mostre, ovvero di quelle esposizioni nelle quali «i fili ordinati della nostra formazione accademica furono rimescolati come un mazzo di carte, ripescando anche artisti inabissati e sconfitti da cambiamenti di gusto e di mercato». Un mondo di ieri oggi quasi scomparso dietro il monotono défilé di grandi nomi al quale si riducono le mostre di maggior successo. Sicché il presupposto che ha dato l’abbrivio a questo volume potrebbe dirsi quasi saggistico: raccontare il significato di una stagione sfinita al momento del suo massimo culmine, avvolgendola di un delicato alone di rimembranza. Di qui anche l’omaggio affettuoso a tre grandi critici, Federico Zeri, Robert Rosenblum e Giuliano Briganti, che hanno fatto parte della formazione della studiosa.
Più che il ritaglio di un’epoca, tuttavia, i cui contorni sono incerti e la distanza dalla nostra troppo esigua perché la si possa ravvolgere, come certi coleotteri, nell’ambra della nostalgia (l’ultimo degli articoli, La strage di un innocente, da Poussin a Bacon, riguarda la mostra Poussin, Picasso, Bacon. Le Massacre des Innocents, che è del 2017), a emergere da questi interventi è una precisa idea di critica artistica; idea insieme scientifica e antidogmatica, che felicemente armonizza l’insegnamento dei tre maestri, appunto Zeri, Rosenblum e Briganti, i quali «diversi fra loro, distanti nelle dottrine sull’arte, avevano tutti una fede incrollabile nell’artista come individuo, quando invece in quegli anni si celebrava il suo sacrificio – nell’ambito della cultura accademica – sull’altare della Storia, dell’Ideale, del Contesto».
Così la Ottani Cavina sembra prediligere le mostre di artisti insoliti che paiono sgusciar via dal loro tempo: Thomas Eakins, le cui figure rimasero immobili e ferme tra gli sfavillanti mulinelli che andava agitando intorno a loro la primavera impressionista; Joseph Wright of Derby, con le sue luci fisse come di presepe; Vilhelm Hammershøi, poeta del gelo e del silenzio, Vermeer iperboreo, pallido, atrabiliare, i cui quadri sembrano interni olandesi osservati con l’occhio ceruleo di un Maeterlinck nella loro algida gamma di bianchi, di azzurri e di grigi.
E poi il Settecento più anomalo, lunare; e il più eccentrico: Humbert de Superville. Come Briganti, che ne I pittori dell’Immaginario aveva indagato l’emisfero in ombra del grande satellite neoclassico, così la Ottani Cavina percorre quei tracciati nascosti che per esser poco battuti rischiano un giorno o l’altro di scomparire, nuovamente rivestiti dalla gramigna dell’ovvietà e della dimenticanza; e taluni di questi sono scorciatoie per il futuro.
È il caso dei volti di Superville, raccolti a Leida e disegnati «sul vuoto con l’eleganza cerebrale di un progenitore di Erté» o dei sessantacinque pastelli del viaggio in Oriente di Liotard, presentati per la prima volta in un’esposizione ginevrina del 1992: semi d’Oriente diafani e soffici, che sarebbero poi germogliati nel lindo contorno di Degas.
Con Rosenblum, la Ottani Cavina divide la consapevolezza di quanto l’arte moderna abbia agito in profondità sul nostro modo di guardare il passato: «Furono Pollock, Clyfford Still e Mark Rothko – ricorda il critico americano – ad aprirmi al sublime di Turner, di Friedrich, al misticismo romantico, una vera scoperta a quel tempo, di cui Rothko perpetuava il dilemma nella cappella immateriale di Houston». A Parigi la Ottani vede esposti i cartoni preparatorî di Ingres per le vetrate della cappella di Ferdinando e della necropoli degli Orleans a Dreux, e ricorda, osservando la verità e insieme l’astratta purezza del disegno, il legame che congiunge queste audaci stilizzazioni alla modernità di Matisse e Picasso. Sempre a Parigi il monumentale dipinto di David che ritrae l’incoronazione di Napoleone le richiama, nella composizione, il Funerale a Ornans di Courbet, mentre «la svalutazione della fase esecutiva introdotta da David ha poi aperto le porte alla vocazione seriale dell’arte moderna, fino ad Andy Warhol». A Londra invece è nel Paesaggio italiano di Wright of Derby che trova un preconizzatore del sintetismo cromatico di Gauguin e dei suoi discepoli, in quelle «striature verdi e lavanda da dove sembra scivolato via ogni riferimento alla memoria».
E, sebbene sia vero che queste osservazioni sono state possibili grazie a un certo tipo di mostre, divenute oggi forse sempre più rare, dal libro non si ricava tanto l’aroma irripetibile di una stagione svanita quanto piuttosto una messe di sollecitazioni e di notazioni inedite. Non si arriva a comporre, insomma, data l’eterogeneità dei testi, il quadro di un’epoca, ma si ottiene uno sguardo fresco e anticonvenzionale su molte epoche, e in special modo sui secoli XVIII e XIX, ai quali l’autrice ha già dedicato lavori di assoluto rilievo. «Affacciandosi sui mondi di tenebra di artisti tormentati e nevrotici, Briganti dava sfogo alla sua insofferenza contro ogni schema lukacsiano e deterministico»: anche la Ottani Cavina, in questi articoli, come nei suoi precedenti libri, diffida di quelle impalcature che riducono l’opera a un campione.
Dell’esperienza delle mostre sa rendere soprattutto l’incontro con l’oggetto, quello shock of recognition che in tutti i grandi critici mette in moto lo spirito analogico, come una vampa che cada improvvisa sull’opera rivelandola sotto una luce insolita. Di un tale lume, brusco e inaspettato, dovevano essere investiti i capolavori radunati da Vivant Denon quando «nelle notti dell’Impero, la visita ai tesori del Louvre» divenne «passeggiata di culto, alla fiamma delle torce». E proprio in questa luce sono viste, nelle pagine più felici del libro, le opere d’arte piccole e grandi del nostro Occidente